RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Blanca Varela – COME DIO NEL NULLA

[Tempo di Lettura: 8 minuti]

 

Blanca Varela

COME DIO NEL NULLA

Versioni di Stefano Strazzabosco

 

 

Puerto Supe

A J. B.

C’è la mia infanzia in questa costa,
sotto il cielo così alto,
cielo come nessun altro, cielo, ombra veloce,
nubi di spavento, scuro turbine d’ali,
azzurre case all’orizzonte.

Vicino alla grande dimora senza finestre,
vicino alle vacche cieche,
vicino al torbido liquore e all’uccello carnivoro.

Oh, mare di tutti i giorni,
mare montagna,
bocca piovosa della costa fredda!

Lì distruggo con brillanti pietre
la casa dei miei genitori,
lì distruggo la gabbia dei volatili piccoli,
stappo le bottiglie e un fumo nero scappa
e tinge teneramente l’aria e i suoi giardini.

Stanno le mie ore accanto al fiume secco,
tra la polvere e le sue foglie palpitanti,
negli occhi ardenti di questa terra
cui scaglia il mare il suo bianco dardo.
Una sola stagione, uno stesso tempo
di gocciolanti dita e alito di pesce.
Tutta una lunga notte tra la sabbia.

Amo la costa, questo specchio morto
nel quale l’aria gira come matta,
quest’onda di fuoco che abbatte corridoi,
cerchi d’ombra e cristalli perfetti.

Qui sulla costa scalo un nero pozzo,
vado dalla notte verso la notte fonda,
vado verso il vento che raccoglie cieco
pupille luminose e vuote,
o abito dentro un frutto morto,
quell’asfissiante seta, quel pesante spazio
pieno d’acqua e di pallide corolle.
Su questa costa sono quello che si sveglia
in mezzo a delle fronde d’ali scure,
quello che sta su quel ramo vuoto,
quello che non vuole vedere la notte.

Qui sulla costa ho radici,
mani imperfette,
un letto ardente dove piango solo.

Parole per un canto

Com’è stato ieri qui?
Abbiamo raggiunto solo questi resti,
il bicchiere che illumina col suo lontano e ostinato silenzio,
l’uccello ferito nello smalto al raggiungere il frutto.

Siamo arrivati con la puntuale indifferenza del nuovo giorno,
saltando sulla disgrazia con precisione d’atleti.
Abbiamo dormito sotto le stelle,
abbiamo perso il tempo.

Paracas, Ancón, Chavín de Huantat.
Queste sono le parole del canto.

Com’è stato ieri qui?
Non parliamo di dolore in mezzo alle rovine.
È più della parola,
è l’aria di tutte le parole,
il fiato umano fatto colpo nella pietra,
sangue nella terra,
colore nel vuoto.

Giace qui,
in mezzo a tombe senza nome,
scritto nello straccio abbagliante,
rossa stella nel fondo dell’orcio.

Per la stessa strada dell’albero e della nube,
ambulando nel cerchio roso dalla luce e dal tempo.
Da quale perduta chiarità veniamo?

Maschera di un qualche dio

Di fronte a me questo volto lunare.
Naso d’argento, uccelli sulla fronte.

Uccelli sulla fronte?

E poi c’è del rosso
e tutto quello che la terra dimentica.
Umidità con potenza di fuoco
in fiore dietro alle nere ciglia.
Un volto alla parete.
Dietro al muro, più in là di ogni volontà,
ancora più lontano che guardare e zittire:
cosa?

Sempre qualcosa da rompere, abolire o temere?
E dall’altra parte? Nel rovescio?

Vola la mano, nasce la linea,
vibrante destino, nero destino.
Per un istante la melodia è chiara,
sembra eterna la sera,
purissima l’ombra del cielo.

Torno di nuovo. Domando.
Chissà questo silenzio dica qualcosa,
sia una lettera immensa che ci nomina e contiene
nella sua aria profonda.

Chissà la morte dietro a quel sorriso
sia amore, un gigantesco amore
nel cui centro ardiamo.

Chissà l’altra parte esista
e sia anche lo sguardo
e tutto questo sia l’altro
e quello questo
e siamo una forma che cambia con la luce
fino a essere solo luce, solo ombra.

Blanca Varela con il marito Fernando de Szyszlo – Parigi 1949 (Archivio Blanca Varela)

Davanti al Pacifico

Sangue giallo sulle dune.
Giorno in rovina.

Qualcosa guardava prima verso l’alto.
Non molto tempo fa
qualcuno cercava di volare.
Seminata nella sabbia
la buia melodia dell’albero di fico,
assurdo il sorriso del sale
in mezzo alla scura spuma della spiaggia.

Poderosi, pieni di segreti
arriveranno gli astri, puntuali.
Venere, impassibile e celeste
lascerà cadere un raggio d’oblio.

Aria aperta
giorno in rovina,
disfatti letti della sera.

Le cose parlano tra loro,
si muovono verso se stesse.
Il vento conta e ordina.

Esercizi

I

Una poesia
come una grande battaglia
mi getta in quest’arena
senz’altro nemico che me

me
e la grande grande aria delle parole

II

mente la nube
la luce mente
gli occhi
gli ingannati di sempre
non si stancano di fole

III

ostinato azzurro
ignoranza d’essere nell’altrui pupilla
come dio nel nulla

IV

penso ad ali a fuoco a musica
però no
non è questo ciò che temo
ma il torvo giudizio della luce

 

A rose is a rose

immobile divora luce
si apre oscenamente rossa
è la detestabile perfezione
dell’effimero
infesta la poesia
col suo arcaico profumo

 

Segreto di famiglia

ho sognato un cane
un cane scorticato
cantava il suo corpo il suo corpo rosso fischiava
ho domandato all’altro
a chi spegne la luce al macellaio
cos’è successo
perché siamo al buio

è un sogno sei sola
non c’è un altro
la luce non esiste
tu sei il cane tu sei il fiore che abbaia
affila dolcemente la tua lingua
la tua dolce nera lingua a quattro zampe

la pelle dell’uomo brucia con il sogno
arde sparisce la pelle umana
solo la rossa polpa del cane è pulita
la vera luce abita la sua cispa
tu sei il cane
tu sei lo scorticato cane d’ogni notte
sogna te stessa e basta

Simon Weil (1909-1943) © Whiteimages/Leemage 

Conversazione con Simone Weil

– i bambini, l’oceano, la vita silvestre, Bach.
– l’uomo è uno strano animale.

Nella maggior parte del mondo
la metà dei bambini vanno a letto
affamati.

Rinuncia l’angelo alle sue penne, all’iride,
alla gravità e alla grazia?

Non abbiamo più speranze
d’essere migliori, adesso?

La vita è d’altri.
Illusioni ed errori.
La parola affaticata.
Ormai non osi più mangiare nemmeno una pesca.

Per qualche motivo ho chiuso la porta,
mi sono voltata di spalle
e tra la rabbia e il sonno ho dimenticato molte
cose.

La metà dei bambini vanno a letto
affamati.

– i bambini, l’oceano, la vita silvestre, Bach.
– l’uomo è uno strano animale.

I saggi, cui diamo la nostra
fiducia,
ci tradiscono.

– i bambini vanno a letto affamati.
– i vecchi vanno alla morte affamati.

il verbo non alimenta. Le cifre non saziano.

Mi ricordo. Mi ricordo?
Mi ricordo male, riconosco a tentoni. Mi sbaglio.
Arriva una bambina da lontano. Mi volto di spalle.
Mi dimentico la ragione e il tempo.

E tutto dev’essere menzogna
perché non sono nel luogo della mia anima.
Non mi lamento della buona maniera.
La poesia mi stufa.
Chiudo la porta.
Orino tristemente sul meschino fuoco della
grazia.

– i bambini vanno a letto affamati.
– i vecchi vanno alla morte affamati.

Il verbo non nutre.
Le cifre non saziano.

– l’uomo è uno strano animale.

Canto villano

e all’improvviso la vita
nel mio piatto di povera
un magro pezzo di celeste porco
qui nel mio piatto

osservarmi
osservarti
o uccidere una mosca senza malizia
annichilire la luce

o farla

farla
come chi apre gli occhi e sceglie
un cielo traboccante
nel piatto vuoto

rubens cipolle lacrime
ancora rubens ancora cipolle
ancora lacrime

tante storie
neri indigeribili miracoli
e la stella d’oriente

murata
e l’osso dell’amore
così roso così duro
brillando in un altro piatto

questa fame propria
esiste
è la voglia dell’anima
che è il corpo

è la rosa di grasso
che invecchia
nel suo cielo di carne

mea culpa occhio torvo
mea culpa nero boccone
mea culpa divina nausea

non c’è un altro qui
in questo piatto vuoto
solo io
divorando i miei occhi
e i tuoi

Fernando de Szyszlo, Elena Garro, Octavio Paz e Blanca Varela  a Parigi nel 1949.

Curriculum vitae

diciamo che hai vinto la gara
e che il premio
era un’altra gara
che non hai bevuto il vino della vittoria
ma il tuo stesso sale
che non hai mai sentito acclamazioni
ma latrati di cani
e che la tua ombra
la tua stessa ombra
è stata la tua unica
e sleale avversaria

[Mezza voce]

la lentezza è bellezza
copio queste righe altrui
respiro
accetto la luce
sotto l’aria rada di novembre
sotto l’erba senza colore
sotto il cielo guasto e grigio
accetto il dolore
e la festa
non sono arrivata
non arriverò mai
al centro di tutto sta la poesia
intatto sole
ineludibile notte
senza girare la testa
bazzico la sua luce
la sua ombra
animale di parole
fiuto il suo splendore
la sua impronta
i suoi resti
tutto per dire
che qualche volta sono stata
attenta disarmata
sola
quasi nella morte
quasi nel fuoco

Blanca Varela e Fernando de Szyszlo

 

Affondo la mano nella sabbia e trovo la vertebra perduta. La smarrisco subito. Ombra di marmo, dissanguata. Mio padre sorride. Da questa parte del mare la spuma è scura. Odora di fiera mi dice la piccola amica. Il mare odora di vita e di morte le rispondo. Supponiamo che sia così.

La salute aggrappata alla roccia. Pietra sensibile alla luce. Il cacciatore è senza mani e piedi. È cieco e desidera. E il suo desiderio è il bosco sott’acqua, folto di sessi in fiore o di fiori maestri che forano il silenzio coi loro grandi becchi rossi e lenti.

Poesie. Oggetti della morte. Eterna immortalità della morte. Qualcosa come un gocciolio notturno e febbrile. Poesia. Orina. Sangue.

Morte fluente e odorosa. Gran orecchio di dio. Poesia. Silenzioso baccano del cuore.

In una mano la pazzia, la tempesta. Nell’altra una pietra rigorosa, mortale. Equilibrio sul filo di ragno che segrega la salvezza sull’abisso.
Da lì le ali, l’aria, le penne. Il volo seppellito. Il foro del cielo cielo, il firmamento del pozzo e la radice dai sette bracci luminosi.

Perché il numero a sostituire l’occhio, a moltiplicarlo? Perché la cecità del cielo? Il verbo si annida eccentrico. Mai in se stesso. Perché ogni centro è un cammino errato e questo è il verbo, occhio del centro abolito. Silenzio.

Hai suonato per tre volte la campana vuota e nessuno ha risposto. Il cervello, la mela, il cuore, erano la stessa ombra muta e segreta sul prato infinito dove l’amore si inginocchia in attesa del raggio che si curva, tagliente, come un altro cielo.

Nostalgia degli assenti, degli angeli vari.
Loro, spogliati del tempo, diventano allusiva nudità, in assenza turbatrice.

Non è il regno della volontà o del desiderio. Tradurre il silenzio è voler fare musica là dove non esistono più né la gola né l’udito umani.

Tradurre il silenzio. Suonare per tre volte la campana vuota. Che sgorghi l’acqua minima, che il dio esista e colmi di muto splendore l’antro immaginario.

Cordis. Cuore. Caverna umida, oscurità azzurra.

 

Nota
di Stefano Strazzabosco

Blanca Varela, una delle figure più schive, potenti ed enigmatiche della poesia del XX secolo, nasce a Lima, Perù, nel 1926. Negli anni ’40 si iscrive alla Universidad Nacional Mayor de San Marcos di Lima per studiare Lettere ed Educazione. Lì conosce alcuni dei suoi futuri amici e compagni di strada, tra cui i poeti Javier Sologuren, Sebastián Salazár Bondy, Jorge Eduardo Eielson, Francisco Bendezú, fondamentali per lo sviluppo di una poetica che trova i suoi maestri in autori legati al Surrealismo, come Emilio Adolpho Westphalen e César Moro. Negli stessi anni conosce anche Fernando de Szyszlo, il pittore che nel ’47 diventerà suo marito e col quale avrà due figli.

Nel 1949 si trasferisce a Parigi, dove frequenta scrittori e artisti come André Breton, Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre, Henry Michaux, Rufino Tamayo e Alberto Giacometti. Ma è il poeta messicano Octavio Paz a spingere la Varela a scrivere e a credere nella propria poesia, tanto che qualche anno dopo firmerà la prefazione alla raccolta d’esordio della peruviana, Ese puerto existe (Quel porto esiste, 1959). In questo scritto Paz osserva acutamente che “Blanca Varela è una poetessa che non si compiace delle sue invenzioni né si ubriaca del suo canto. Con l’istinto del vero poeta sa zittirsi per tempo. La sua poesia non spiega né ragiona. Non è nemmeno una confidenza. È un segno, un congiuro davanti, contro e verso il mondo, una pietra nera tatuata dal fuoco e dal sale, dal tempo, dalla solitudine. E, anche, un’esplorazione della propria coscienza”. Dopo che a Parigi, Blanca Varela vive anche a Firenze, dove resta fino al 1955.

Nel 1957 la Varela e Szyszlo si spostano a Washington. Nello steso anno i poeti Sebastián Salazár Bondy e Alejandro Romualdo la includono nella Antología general de la poesía peruana, e da allora la sua opera comincia a essere tradotta e riconosciuta anche fuori dal suo Paese.

Tornata in Perù dal ‘62, diventa responsabile del Fondo de Cultura Económica e segretaria generale della sezione peruviana del Pen Club. Nel 2001 riceve il Premio Octavio Paz di Poesia, nel 2006 il Premio García Lorca e lo stesso anno il Premio Reina Sofía di Poesia Latinamericana. Muore a Lima nel 2009.

La sua opera poetica, uscita a intervalli anche molto irregolari nel corso degli anni, è ora riunita nel volume Donde todo termina abre las alas (Poesía reunida 1949-2000), con un Prologo di A. Castañon e un Epilogo di A. Gamoneda, Galaxia Gutemberg / Círculo de Lectores, Barcelona 2001.

I testi che riproduciamo sono tratti dalle seguenti raccolte:

Puerto Supe: da Ese puerto existe (1949-1959); Parole per un canto, Maschera di un qualche dio, Davanti al Pacifico: da Luz de día (1960-1963); Esercizi, A rose is a rose, Segreto di famiglia, Conversazione con Simone Weil: da Valses y otras falsas confesiones (1964-1971); Canto Villano, Curriculum vitae, [Mezza voce]: da Canto villano (1972-1993). Le rimanenti prose poetiche sono tratte da El libro de barro, in Donde todo termina abre las alas. Poesía reunida (1949-2000), cit.

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