RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Claudio Ambrosini “Il canto della pelle – Sex Unlimited”

[Tempo di Lettura: 23 minuti]

SENZA LIMITI…
di Paolo Petazzi

La prima rappresentazione del “dramma giocoso in due parti e un labirinto” Il canto della pelle – Sex Unlimited di Claudio Ambrosini ebbe luogo a Lione, nell’ambito della Biennale Musiques en scène/ Grame-Lyon il 24 marzo 2006. Dieci anni dopo la Solal ha pubblicato la registrazione dal vivo della prima in 2 cd, la cui presentazione a Venezia è stata l’occasione di questi appunti, dove si riprendono anche riflessioni e informazioni imprescindibili dagli interventi della prof. Silvana Tamiozzo Goldmann e di Claudio Ambrosini.
Da parte di tutti è stato naturale far riferimento a un testo inedito di Ambrosini,”Va’, libretto mio…”, un titolo che va integrato con la citazione in epigrafe di Luigi Meneghello, “Va’, libretto mio, va a roccolare” (ultimo verso di Ur-Malo da Pomo Pero). “Ur-Malo”, da Meneghello è anche un “polittico per quattro voci di donna, pianoforte e cose” composto da Ambrosini nel 2007. Commentando il “roccolare” della citazione da Meneghello, Silvana Tamiozzo Goldmann osservava che “anche il libretto del Canto della pelle rientra tra quelli invitati a andare per le strade, a “raccogliere consensi per sé e per me”, come direbbe Meneghello. Il quale spiega altresì che «roccolare» in dialetto vuol dire raccogliere, racimolare (irretire uccelli in origine, da “roccolo”, poi procurarsi con furbizia danaro, vantaggi, favori, consensi), ma con sfumature e associazioni diverse da quelle delle parole italiane”.

Sezione 6c: (Mitologia) Beatrice e Vulvonauta – © A. Claudini.

In “Va’, libretto mio…” Ambrosini spiega come le sue cinque opere teatrali, tutte su libretto proprio, composte e rappresentate nell’arco di un quindicennio circa (ma pensate e progettate in un arco di tempo molto più ampio) formano un ciclo, una ambiziosa “pentalogia”: sono Big Bang Circus (2002), Il canto della pelle – Sex Unlimited (2006), Apocalypsis cum figuris (2012), Il giudizio universale (1996) e Il killer di parole (2010), un ciclo dunque “che ha visto musicato per primo il penultimo titolo (che poi si basava su un libretto scritto di getto ma che stava aspettando già da una mezza dozzina d’anni), per secondo il primo, per terzo il secondo e a seguire”.
Spiega Ambrosini: “Uno sguardo ai titoli probabilmente suggerisce il senso del progetto, che abbraccia gli estremi del “primissimo giorno” (Big Bang Circus) e dell’ ”ultimissimo” (Il giudizio universale) e che pone, tra questi, un’opera sull’eros (Il canto della pelle – Sex Unlimited), inteso come energia attrattiva, presente non solo tra gli esseri viventi ma anche in vari altri settori: nel magnetismo, nella chimica, nella fisica dell’atomo; tutti in grado di produrre vita, in “illimitati modi e forme”, in tutto l’universo. A Sex Unlimited segue una micro-opera di “teatro di puro ascolto”, senza azione o scena (Apocalypsis cum figuris) che rimescola frammenti delle altre opere del ciclo e funge da anticipazione del successivo Giudizio universale. A conclusione, un’opera sulle lingue del mondo (Il killer di parole), grande creazione collettiva grazie alla quale si sono potuti raccontare, nei millenni, i temi trattati dalle altre quattro: le lingue quindi come il patrimonio più prezioso dell’umanità”.

Sezione 6 (Mitologia/Sexland): il Collezionista di biancheria intima e Beatrice, pornostar dal costume sonoro (il pubblico può toccarla, “suonarla”) – © A. Claudini.

Con queste premesse che significato ha la definizione “dramma giocoso” riferita a Il canto della pelle – Sex Unlimited (composto nel 2005-6)? Una delle prime recensioni notava che non si tratta di un’opera buffa; ma la definizione non dovrebbe creare aspettative di caratteri comici in senso esclusivo e univoco: anche senza scomodare la celebre definizione del Don Giovanni e punti di riferimento come Mozart e Da Ponte, sappiamo che proprio nel genere “comico” (e non in quello “serio”) nel secolo XVIII ci si poteva trovare di fronte ad una non convenzionale molteplicità di situazioni. Ovviamente va intesa così nel caso del Canto della pelle, dove il semplice elenco delle fonti letterarie citate basterebbe ad evocare una straordinaria varietà di situazioni e caratteri. Si spazia dal sanscrito dei Veda e del Kamasutra agli inni orfici, alla Bibbia, a Saffo, Lucrezio, Giovenale, da Veronica Franco e Gaspara Stampa a Giorgio Baffo e a John Donne (nella meno nota veste di poeta d’amore), da mistici spagnoli come Juan de la Cruz e Juana Inés de la Cruz a William Blake a Emily Dickinson a Walt Whitman. Il percorso drammaturgico non ha, ovviamente, un carattere narrativo. Il teatro di Ambrosini si colloca nella prospettiva del teatro musicale novecentesco cui appartengono le Sette canzoni e il Torneo notturno di Gian Francesco Malipiero, Intolleranza 1960 di Luigi Nono e Hyperion di Maderna (mi limito a citare autori veneziani). In questi e in molti altri compositori la perdita di significato delle convenzioni e tradizioni condivise fa avvertire come fortemente problematico il raccontare una vicenda, spingendoli a ricercare soluzioni drammaturgiche diverse, che ovviamente vanno analizzate e discusse caso per caso. Non posso né voglio riassumere schematicamente problemi complessi; ma basterà qui ricordare che anche nelle opere citate di Malipiero e Nono il libretto è un collage di citazioni da fonti diverse, e che spesso nelle opere più riuscite l’esito drammaturgico si può configurare anche come proiezione della poetica del compositore.

Sezione 5: Società. Nel Labirinto: La Donna venduta – © A. Claudini.

Le citazioni del libretto del Canto della pelle delineano un percorso che l’autore, nello scritto citato, racconta così:
Il canto della pelle – Sex Unlimited è un’opera-viaggio su un immaginario piano rotante. La scansione temporale in questo caso è lineare, ma in forma di clessidra: da un inizio ameno si arriva, attraverso scene progressivamente drammatiche, fino al un momento centrale decisamente tragico; per risalire poi la china gradualmente fino a ritrovare, nell’ultima scena, la positività che aveva caratterizzato l’apertura. Il “perno” attorno al quale questa rotazione virtuale avviene è costituito dal soggetto stesso dell’opera, il sesso; tema insieme molto complesso e delicato. Qui la soluzione è consistita nell’immaginare questo pivot come un prisma a tante facce: l’opera ne mostra una per volta scendendo, di scena in scena, come lungo un imbuto in cui l’atmosfera si faccia sempre più buia: Natura, Cultura, Tradizione, Religione, Passione, Medicina, Economia (e questo è il punto più crudo e nero, perché il sesso qui dipende interamente dal potere d’acquisto del denaro); per rasserenarsi poco alla volta attraverso Mitologia, Danza e Arte. Tra i personaggi: Mr. Time, M.me Nature, Prince Eros, la Signorina Cellula, Tom-Tom e Tam-Tam, Sappho, San Juan de la Cruz, il Dr. Granpotacio e il suo assistente Potaccetto, l’Innamorata, il Collezionista, la Podofila, il Vulvonauta…”.

Possono bastare queste indicazioni dell’autore a far comprendere la natura della drammaturgia del Canto della pelle, che in verità, fin dalla prima rappresentazione si era rivelata chiara e coinvolgente, e tale si conferma all’ascolto dei due cd. Naturalmente essenziale in ciò è la riuscita della musica. Per l’ultima volta faccio riferimento al citato “Va’, libretto mio…” di Ambrosini soltanto per ricordare che dedica un notevole spazio a riflessioni sulla “cantabilità” di un testo, non in modo generico, ma con precisi riferimenti alla funzione di vocali e consonanti in rapporto alla voce e sulle potenzialità di diverse lingue. Tali riflessioni rivelano un tipo di attenzione alla vocalità che offre una chiave per comprendere la riuscita del Canto della pelle. Uno dei punti di forza della partitura va riconosciuto nella flessibilità e nelle suggestioni della scrittura vocale. La concezione stessa del testo, a frammenti tratti da fonti diverse, ha evidentemente stimolato la fantasia del compositore in modo da creare una variegata successione di situazioni, ognuna risolta evitando il ricorso all’insidia del declamato che rischia la piattezza e la noiosa prevedibilità.

Sezione 2d: TOM TOM – TAM TAM  – Canzone per danza, a “cori spezzati”
(Canzone della pelle n.2: pelle, metallo) – © A. Claudini

Imprevedibili davvero sono alcune soluzioni nel rapporto testo-musica: basti citare quella adottata per intonare alcuni dei versi più celebri di Saffo, cantati in greco nella sezione 3 (De Amore) e qui citati nella traduzione di Ambrosini: “Mi pare proprio un dio/quell’uomo che ti siede di fronte,/ vicino, e ti ascolta rapito/ dir parole dolci/ e ridere eccitata…”. Saffo stessa (soprano) li canta, guardando il mezzosoprano (che aveva rivolto versi d’amore a un Danzatore) e il profondo turbamento che descrivono (“la voce mi si blocca,/ la lingua mi si spezza … e d’essere vicina a morte/ in cor mi sento”) va ricondotto a violenta gelosia, come risulta chiaro dalla situazione teatrale, ma soprattutto dalla musica, la cui furente intensità in questa direzione espressiva appare inequivocabile.

Nel Canto della pelle son impegnate quattro voci (soprano, mezzosoprano, tenore, basso-baritono) e una attrice: anche qui, come in Big Bang Circus e in altri lavori Ambrosini lascia uno spazio non trascurabile alla parola parlata. Rispondendo a una domanda a questo proposito, il compositore ha spiegato che quando vuole che un testo sia immediatamente capito, ricorre al parlato, perché intende comunque evitare il “recitativo”. Nel caso del Canto della pelle l’attrice ha una parte di rilievo quando si tratta della mercificazione del sesso, come pornostar di nome Beatrice. Nell’equilibrio complessivo dell’opera mi sembra un fatto positivo che Ambrosini abbia curato anche le parti parlate, non lasciandone la stesura ad altri come era accaduto in Big Bang Circus. Ne risulta una maggiore compattezza, e in modo più compiuto ci si avvicina all’intenzione dichiarata di introdurre nell’opera elementi di “oratorio” (genere che in diversi momenti storici comportava la figura di un narratore). Ferma restando, credo, la decisiva importanza della riuscita della dimensione “opera”.

Paolo Petazzi
©Riproduzione riservata

Sezione 1: Natura. Mr. Time, M.me Nature, Prince Eros, Signorina Cellula – © A. Claudini

 

Claudio Ambrosini Il canto della pelle – Sex Unlimited

di Dennis Ercole

In occasione della presentazione di un nuovo disco di Claudio Ambrosini, riconosciuto ed affermato compositore veneziano della scena musicale contemporanea europea, si è tenuto martedi 13 dicembre presso l’aula magna dell’Ateneo Veneto di Venezia, un incontro con l’autore curato dal musicologo Paolo Petazzi e da Silvana Tamiozzo Goldmann docente di letteratura presso l’Università Ca’ Foscari. Al centro del dibattito una pregevole produzione discografica di Ambrosini contenente la registrazione live Il canto della pelle – Sex Unlimited, la seconda di un ciclo di cinque composizioni di un ampio progetto iniziato nel 1996 e completato nel 2012.
Big Bang Circus, presentata nel 2002 alla Biennale di Venezia, metteva insieme tutti i miti che l’umanità ha inventato per raccontare la genesi, mostrando gli eroi che hanno cercato, nel corso della storia, di capire e spiegare l’idea dell’inizio. Nella terza opera, Il Killer di Parole, veniva trattato il tema della lingua, definita dal compositore come “La grande opera collettiva dell’umanità”, e il modo in cui i linguaggi orali delle tribù sparse nelle varie regioni del mondo, scompaiono facendoci perdere un patrimonio immenso di proverbi, canti, fiabe e racconti generati nel corso di migliaia di anni. Nella quarta opera Apocalypsis cum Figuris venivano presentati elementi delle opere precedenti, i quali però attraversavano un processo di disfacimento come sarebbe accaduto in una vera apocalisse; mentre nell’ultima composizione, Il Giudizio Universale, affrontata dall’autore in modo leggero sotto forma di opera buffa, veniva messo in scena l’ultimo giorno dell’umanità.

Canto della pelle: Sezione 6b (Mitologia): Sexland/la parata. Beatrice e Rufa, regina del Sexarium di Pompei – Photo: Herbert Cybulska

Ne Il canto della pelle – Sex Unlimited, seconda opera di questo ciclo, Ambrosini tratta il tema del sesso, inteso come energia vitale, l’attrazione tra elementi opposti o complementari, che produce all’infinito vita. Il titolo Sex Unlimited (sessualità senza limiti), spiega l’autore, sta a significare gli infiniti modi, dal primo all’ultimo giorno della creazione, di generare la vita, citando una frase tantra derivante dalla cultura induista, ma espressa concettualmente anche dal poeta William Blake: “Come nel corpo, così nell’universo e viceversa”, ovvero ciò che avviene nella macrostruttura avviene anche nella microstruttura, che in questo caso compete alla nostra esistenza di esseri umani. La prima parte del titolo Il canto della pelle è stata scelta invece perché in questa composizione viene affrontato il tema del contatto, della riproduzione, un incontro che avviene attraverso la pelle, quel confine tra la parte interna dell’essere umano e il mondo esterno.

Ambrosini ha concluso la sua presentazione spiegando che quest’opera è stata un enorme lavoro, una raccolta di materiali durata anni, dalle scritte sui muri di Pompei, alle condizioni delle prostitute durante il Rinascimento e l’Ottocento, fino alla ricerca di articoli di giornale, racconti e scritti. Un vero e proprio labirinto di materiali riorganizzati come se fossero più facce di un prisma che sta virtualmente al centro dell’opera, dove ogni scena prende in considerazione una faccia, secondo un percorso che alterna elementi positivi a elementi negativi.

Nella prima scena viene presentata la Natura, dove tutto è positivo dal punto di vista dell’attrazione e della riproduzione, la seconda scena passa alla Cultura, alle diverse interpretazioni del sesso, la terza alla Tradizione, la quarta alla Religione, dove in questo caso il compositore contrappone il tantra e il pensiero di due mistici barocchi del Seicento; l’opera poi prosegue attraverso la Medicina e altri episodi, fino al momento centrale legato all’Economia, al mercato, che è il punto più negativo e tragico dell’opera; per poi tornare ad elementi positivi attraverso la Mitologia, lo Spettacolo, l’entertainment, per finire nell’Arte, nella scena finale.

Canto della pelle Sezione 5: Mercato (Pedofilia) – Photo: Herbert Cybulska

La conferenza è poi proseguita con l’analisi del libretto da parte della professoressa Silvana Tamiozzo Goldmann, la quale ha iniziato il proprio intervento citando un verso che Ambrosini aveva inserito come epigrafe ad un suo scritto, nel quale spiegava la genesi delle sue storie, che recitava “Va’ libretto mio, va’ a roccolare”, dove roccolare significa raccogliere, racimolare; spiegando la difficoltà di descrivere un libretto come quello di Canto della pelle – Sex Unlimited scritto dallo stesso Ambrosini, studiato per una musica complessa, impegnativa e fusa col testo, alla ricerca di una forte finalità espressiva. Elemento molto interessante del libretto è il fatto che esso non elude per niente tensioni, torsioni linguistiche e coloriture suscitate dall’ampia natura dei testi, di vario tipo e disposti ad arte nell’opera. L’andamento è quello di una progressiva discesa agli inferi, per poi proseguire fino ad una risalita per tornare alla situazione positiva di partenza.
Il tema del sesso viene trattato dal compositore in modo complesso, spiega Goldmann, dal registro dell’energia divina – rappresentata dai passi in sanscrito –, a quello ludico, fino a quello drammatico, tenendo sempre centrale la visione del sesso come energia vitale, forza scatenante, potenza attrattiva che produce vita dal primo all’ultimo giorno. Descrivendo il modo in cui il compositore ha calibrato l’inserimento dei vari elementi che costituiscono l’opera, dove le attività artistiche delle varie culture del mondo, sono in grado di generare un vero viaggio nella storia dell’arte e allo stesso tempo all’interno di un sogno.

La parola è poi passata al critico Paolo Petazzi, che ha analizzato del punto di vista dell’opera buffa la composizione teatrale di Ambrosini, ponendo la questione della scrittura del libretto da parte dell’autore. Osservando l’opera come una proiezione della poetica musicale del compositore il critico ha affermato la legittimità di questa operazione soprattutto in opere come questa che non raccontano una storia, senza un filo narrativo, in grado però di far vivere un’esperienza forte e diretta allo spettatore.

Sezione 7: Arte – Madrigale dei Cinque Sensi: Beatrice circondata da Vista, Tatto, Gusto, Olfatto
Photo: Herbert Cybulska

Petazzi descrive l’opera di Ambrosini come un montaggio di citazioni bellissime, in grado di trasportarci in universi letterari affascinanti, ricercando a lungo una musicabilità dei testi utilizzati. Ponendo successivamente l’attenzione sull’utilizzo della vocalità e sul modo in cui Ambrosini è riuscito a renderla fortemente cantabile, senza il rischio di cadere nel tedio del recitativo o nella monotonia.
Il critico ha poi posto una problematica al compositore, ovvero facendo notare che sia nell’opera Big Bang Circus sia ne Il canto della pelle e negli altri lavori, tranne ne Il Killer di Parole che è tutto musicato, le parti parlate dell’opera sarebbero potute sembrare, dal punto di vista dell’ascoltatore, un po’ invasive rispetto alla complessività delle composizioni, chiedendo quindi all’autore la necessità di queste sezioni.

Ambrosini ha concluso l’incontro rispondendo alla domanda del critico, indicando che da compositore d’avanguardia, interessato in primis alla ricerca strumentale e nel caso dell’utilizzo della voce alla possibilità di portarla sempre dalla parte dello strumento; di far passare alcuni concetti, contenuti, frasi e scene attraverso il veicolo della pura cantabilità, mentre altre attraverso il parlare, perché il parlare nell’architettura di un’opera diventa il momento in cui l’autore, sostituendolo al recitativo, fa arrivare moltissime informazioni, che se fossero invece cantate, sarebbero di più complessa fruizione. Ambrosini ha spiegato che il suo è stato un tentativo di creare una sorta di ibrido tra l’opera e l’oratorio, un racconto circolare composto da tante storie diverse legate tra loro, in grado di generare in alcuni momenti uno straniaménto che coinvolge emotivamente sul messaggio espresso dal compositore e che prepara il fruitore alla scena successiva.

Dennis Ercole
© Riproduzione riservata

Copertina del doppio CD pubblicato dalla Solal (009)

Il canto della pelle – Sex Unlimited

Melodramma giocoso in due parti e un labirinto (2005-2006)
per quattro voci, attrice, danzatore, dieci strumenti ed elettronica
(versione completa: 120′ ca. – versione condensata: 90’ )
Ideazione, musica e libretto: Claudio Ambrosini
Commissione:  Ministero della Cultura Francese
Premio Music Theatre Now (Berlino, 2008)
Libretto premiato dalla Association Beaumarchais (Parigi, 2005)

Il libretto associa, alle parti originali di Ambrosini, anche l’adattamento di frammenti poetici tratti dagli Inni Orfici, Atharva Veda, Kamasutra, Ratnasara, Bibbia, Tantrismo, Sappho, John Donne, San Juan de la Cruz, Suor Juana Inés de la Cruz, William Blake, Emily Dickinson, Veronica Gambara, Giorgio Baffo, Veronica Franco, Gaspara Stampa, Titus Lucretius Carus, Trotula, Decimus Junius Juvenalis, Quintus Septimius Florens Tertullianus, Walt Whitman, iscrizioni anonime sui muri di Pompei.
Scelta, adattamenti e traduzioni di Claudio Ambrosini.

I^ es.: 24/03/2006, Biennale MUSIQUES EN SCENE, Teatro dell’Opera di Lione.
Sop.: Sonia Visentin, Msop.: Anne Vavrille, Ten.: Philippe Du, Basso: Claude Darbellay. Attrice: Anna Schmutz-Lacroix. Coreografo e danzatore: Andonis Foniadakis. Elettronica: Frank Berthoux/GRAME. Ensemble Orchestral Contemporain. Dir.: Stefano Celeghin.

Altre informazioni e il libretto completo dell’opera sul sito ufficiale di Claudio Ambrosini, attualmente in costruzione.

Claudio Ambrosini –  © Diego Landi

VENEZIA: QUANDO LA MUSICA SORRIDE…
Estratti da una conversazione con Claudio Ambrosini*

di Nicola Cisternino

Era da qualche tempo che ci ripromettevamo, con Claudio Ambrosini, di ritrovarci per parlare un po’ della sua straordinaria vitalità creativa della quale sono testimone fin dal mio arrivo a Venezia nel 1976 per studiare in Conservatorio, nella cui classe di Teoria lo incontrai per la prima volta, entrambi abbastanza adulti anche se separati anagraficamente da diversi anni, ma lui già giovane laureato e pienamente attivo sul piano artistico, che aveva deciso di tuffarsi interamente nella musica, come racconterà dettagliatamente durante la conversazione.

Claudio Ambrosini nel tempo ha costruito e dato sempre più mature conferme di una sorta di iniezione energetica e di intelligenza nel panorama compositivo contemporaneo, non solo italiano. Se non il primo, è uno dei due, tre compositori italiani pienamente riconosciuto (ultimo, l’assegnazione del Leone d’Oro della Biennale Musica assegnatogli nel 2007) e affermato nel panorama internazionale, con la specificità, come ben emerge nella conversazione, di un percorso linguistico nel mondo dei suoni ma non solo, assolutamente originale e profondamente radicato nella poetica dei ‘caminantes’ tanto cara a Luigi Nono al quale potremmo affiancargli tutti i padri naturali della cultura veneziana degli ultimi cinquant’anni, da Bruno Maderna (vero baricentro della nostra conversazione) a Emilio Vedova, a Carlo Scarpa, e alla cultura veneziana fin dalle più lontane ramificazioni nella storia. Figlio di una cultura onnivora di relazioni e scambi (di linguaggi, storie, culture…), come la più autentica storia e cultura veneziana insegna, curiosamente sempre aperta a nuove possibilità pur essendo profondamente ancorata alla storia, Claudio Ambrosini è oltre che compositore ampiamente riconosciuto e riconoscibile attraverso le sue opere, anche lucida coscienza critica di una città, Venezia, in quanto rappresentativa, come microcosmo artistico ma anche culturale e urbanistico, di una società in vorticosa e contraddittoria trasformazione.

Venezia, Cannaregio… 5 marzo 2009, ore 15

(Nicola Cisternino)  Partiamo da questa memoria viva e dalla tua considerazione: «Maderna è il Mozart dei nostri giorni»…

(Claudio Ambrosini)  Un aneddoto. Da adolescente ero andato – con Alberto Senigaglia, oggi giornalista de La Stampa e del Giornale della Musica – ad un concerto della Biennale Musica del 1965 e lì assistemmo alla prima esecuzione della Aulodia per Lothar di Maderna. Ho ancora alcune pagine dello spartito che i due interpreti, l’oboista Lothar Faber e il chitarrista Alvaro Company, usarono per il concerto e che io, alla fine, ero salito sul palco a osservare da vicino. Fogli preziosi prelevati dai loro leggii, che poi – quasi trent’anni dopo – mi sono stati utilissimi per realizzare l’edizione filologica del brano, registrato con l’Ex Novo Ensemble nel primo dei due cd che abbiamo dedicato a Maderna. In quel disco ho potuto farne una vera e propria «ricostruzione», grazie a quelle pagine manoscritte e al ricordo personale dell’esecuzione di una partitura che, come spesso in Maderna, conteneva grafie «aperte», da realizzare con una percentuale di improvvisazione.

Claudio Ambrosini con l’Ex Novo Ensemble

Non solo un aneddoto ma anche preziosi reperti…

Sì, perché all’epoca Maderna viveva già a Darmstadt ed era difficile vederlo a Venezia se non nei camerini del teatro, alle prove o dopo i concerti…
Comunque ne sono convinto: si può pensare a Maderna come al «Mozart» del nostro tempo. Innanzitutto per la sua storia personale, per la sua vita sconvolgente di
énfant prodige, portato giovanissimo – anche lui dal padre, in questo caso musicista jazz – in ambienti impensabili per un ragazzino. Non nelle regge come Wolfgang, ma in osterie che la sera diventavano locali da ballo e che oggi sarebbero forse considerate posti un po’ equivoci: lui bimbetto di dieci anni a far vita notturna! Ma poi soprattutto per la sua versatilità, la facilità musicale, il sorriso che dissimulava invece una grande preparazione, e intelligenza e curiosità. Ad esempio, ci sono due o tre documentari in cui si vede che se gli si pone una domanda d’attualità, Maderna parla con cognizione di causa di tutto. Se invece la discussione verte sulla musica, lui tratta di qualsiasi epoca (essendo, tra l’altro, uno dei pionieri della riscoperta della musica antica); o di letteratura o di altro, ma il tutto senza mai darsi arie e con estrema amabilità, generosità, calore umano. Tutti se lo ricordano così, ancora oggi. Io stesso ho avuto, come insegnanti al Conservatorio, musicisti che avevano suonato in orchestra con lui, come ad esempio Virginio Donaggio, che ricordava Maderna con affetto e ammirazione straordinaria. Il mondo della musica non solo veneziana e italiana, ma internazionale, deve molto a Maderna. Se non fosse morto così presto, oggi le cose sarebbero di sicuro diverse.

E’ grazie alla sua grande opera da direttore e di instancabile animatore della vita musicale tra gli anni Cinquanta e Settanta che possiamo oggi avere tanta musica, tante partiture molte volte scritte appositamente per la sua direzione…

Maderna ha fatto tantissimo per gli altri, al punto di trascurare se stesso. È passato come una meteora, proprio come Mozart. La sua era una capacità di interessarsi a tante cose, di indagarle a fondo ma con quella specie di «sorriso veneziano» che ritroviamo anche in Da Ponte e nella trilogia mozartiana, dove ha trattato temi davvero incredibili.
Così fan tutte,
ad esempio, si basa sulla scommessa che due ragazze – entro poche ore – se ben tentate finiranno per tradire i fidanzati con due sconosciuti. È un tema che ancor oggi, se trattato in un’opera, probabilmente darebbe scandalo: pensa che si era nel Settecento! E Da Ponte sa trattare un tema del genere con arguta leggerezza, rivelando in questo un’autentica caratteristica di Venezia, città smaliziata abituata a tutto, dalla prostituzione «di stato» (le famosissime cortigiane) ai divertimenti del Carnevale, che durava mesi… Un atteggiamento che ritroviamo anche ne Le Nozze di Figaro, che oggi si definirebbe un caso di molestia sessuale: il Conte di Almaviva fa di tutto per esercitare lo jus primae noctis su Susanna, promessa sposa a Figaro. Anche quest’opera è quindi un’analisi sulla società, sull’esercizio del potere.

Son temi attuali, straordinari, ma trattati con un «sorriso» che ritrovo anche in Maderna, che faceva cose altrettanto sorprendenti. Lo si vede anche nei filmati delle sue prove, nel suo modo di lavorare con l’orchestra, quando spiega ai musicisti come fare le improvvisazioni, come trasformare le strane grafie contemporanee in suoni: è lui che canta tutte le parti, dando un’idea perfetta di quello che avrebbero dovuto fare.

Il tutto come se fosse un grande gioco…

Sì, proprio come un gioco. Io ad esempio ho realizzato diverse versioni della sua celebre Serenata per un satellite, una delle sue partiture più note e in cui tutto sembra così spontaneo, in cui la notazione musicale si fa anche segno grafico, talvolta anche astratto: eppure, prova a cambiare una sola nota e ti accorgi che la magia svanisce subito. Vuol dire che ogni virgola è lì perché è stata pensata: benché sia musica aleatoria niente è lì per caso, tutto ha una ragione, una funzione. E magari è stata scritta in poco tempo, proprio «alla Mozart»…

Io ho sempre una sorta di idea fissa sulla straordinaria vita di Maderna, poiché penso che Giuseppe Tornatore, ad esempio, potrebbe realizzarne un grande film. Ho avuto modo di parlarne una volta a Tonino Guerra e lui mi rispose: “Se hai dieci miliardi, se ne può parlare!”.

Un film! Sarebbe bellissimo…

Racconterebbe una storia che ci racconta, racconta la storia anche del nostro paese durante il fascismo, come ad esempio l’utilizzo del bambino prodigio ‘Brunetto’ che dirige a dieci anni l’orchestra dell’Arena di Verona secondo un preciso disegno dell’allora ideologia della gioventù fascista, o anche delle protezioni dell’orfanello da parte dell’allora cardinal Montini, per non parlare della guerra partigiana e di tutto ciò che la musica donò ed ebbe in cambio dall’opera di Maderna nella Venezia del dopoguerra, effettivamente, come tu dici di questa città sempre plurima, molteplice.

Sì! direi molto civile, cosciente dei problemi senza però aggiungere quel quoziente di «musonismo» che invece hanno ad esempio le culture nordiche che, di qualsiasi cosa si occupino, devono prima colorarla di una tinta tragica. Invece – per Maderna, per Da Ponte o per Mozart – un problema può essere grave, complesso, ma se ne può parlare per stratificazioni; cioè ci si può accennare partendo dal grado «superficiale» del sorriso. Poi chi è in grado di andare avanti, in profondità ci va; chi invece non può, resta dov’è.

 

Happy Grossato Company – Original Jazz Band – Bruno Maderna al violino (1930 – 1931)

Che è poi la metafora della nostra contemporaneità, della babele…

Ad esempio in Shakespeare, nel Julius Caesar c’è la drammatica scena dell’uccisione di Cesare e subito dopo c’è la scena buffa del popolino che non ha capito cosa sia successo e sbanda di qua e di là nella piazza. Perché? Perché Shakespeare mette la scena importante per quelli che sono in grado di capirla, e aggiunge però come «cuscinetto» un momento farsesco per chi è in grado di capire solo quel tipo di situazione teatrale. Ciascuno di noi segue qualsiasi spettacolo fino al livello cui la nostra sensibilità e preparazione ci permettono di accedere… Questo vale per Shakespeare come per Maderna; per il teatro come per la musica contemporanea e per tutte le forme d’arte.

Da quello che tu mi dici, sento molto presente la metafora del teatro, questo discorso di Da Ponte, di Shakespeare, del teatro come intreccio e macchina drammaturgica di rimando alle dinamiche umane e sociali…

Perché il teatro ha sempre un soggetto, un argomento e nello stesso tempo è un oggetto.
Di opere liriche ne ho scritte finora quattro e son portato a fare una prima distinzione tra la «piccola» e la «grande dimensione». Distinguo cioè tra una «scena», una situazione, un’azione «mirata» o anche una performance, una situazione multimediale (che ha cioè per oggetto d’indagine una certa ricerca sonora, o un certo rapporto con l’immagine, con il movimento, con lo spazio ma in un ambito di tempo e mezzi limitato) e la grande forma, l’opera lirica nella sua architettura completa, e complessa, che deve sostenere una lunga durata in un’unica arcata. Normalmente si tratta di un’ora, due o più, nelle quali portare avanti un progetto, trattare un argomento, definire articolatamente la propria posizione rispetto a qualche problematica.
Per esempio l’opera nuova che sto scrivendo adesso per la Fenice (la cui messa in scena è prevista per il settembre 2010, ndc), si occupa del problema delle lingue del mondo. E del problema della conservazione dei patrimoni culturali in un’epoca attrezzatissima, sì, in cui la tecnologia sembra garantire la memoria, ma in realtà poi tutto il registrato dopo un po’ si smagnetizza, si volatilizza… Alla fine erano più sicuri di lasciare le loro informazioni i Sumeri (con le loro tavolette di pietra, che sicuramente rimarranno per altre migliaia di anni) che la nostra cultura, che rischia di scomparire semplicemente perché si sarà cancellato un
hard disk o sarà uscito di produzione un cavetto necessario per collegare un certo modello di computer… Noi, e la nostra boriosa babele di informazioni, rischiamo letteralmente di svanire per delle inezie.
E la nuova opera lirica, alla quale sto lavorando, parla proprio di questo. Si chiama
Il Killer di parole (ludodramma in due atti su soggetto del celebre scrittore francese Daniel Pennac e dello stesso Ambrosini, ndc) e ha una particolare collocazione fra quelle che finora ho realizzato.
Ho cioè già composto un’opera lirica sull’Inizio (
Big Bang Circus), una sulla Fine (Il Giudizio Universale), una terza su tutto ciò che sta in mezzo (Il canto della pelle/Sex Unlimited) o, in altre parole: un’opera sul primissimo giorno, una sull’ultimissimo e una su tutto ciò che riguarda l’energia «attrattiva» – ciò che chiamiamo «sesso» – che produce vita tra questi due momenti estremi… col Killer di parole ora arriverei alla chiusura del ciclo, occupandomi del «Verbo» (‘In principio era il Verbo’…), cioè della comunicazione, della lingua, che per me è il capolavoro collettivo dell’umanità.
Quando parlo di opera lirica, penso insomma a qualcosa di diverso dalla semplice azione o situazione teatrale con musica. Ci può, anzi ci deve essere sperimentazione, anche con la creazione di nuovi strumenti, di nuovi spazi e modi di interagire, ma poi bisogna riuscire ad immettere tutto questo nell’alveo di una drammaturgia. Tutto deve diventare cioè funzionale ad un
telos, un punto d’arrivo che è l’assunto dell’opera, e magari anche la sua caratteristica formale. Io cerco sempre di costruire nuove forme, come per esempio nel balletto Pandora librante del 1998, che alterna cinque brani orchestrali – quasi ampi affreschi – a quattro piccole miniature per due voci femminili e una manciata di strumenti: è una forma «a pantografo», che alterna pieno e vuoto, che quasi respira…
Quindi, proprio perché l’opera lirica è questo grande «destinatario finale», è assolutamente necessario sostenere la ricerca d’avanguardia, intesa come indagine al microscopio i cui risultati trovano poi una realizzazione applicativa nelle grandi dimensioni. Lo stesso avviene nella ricerca scientifica, per esempio quella sui tessuti per le tute degli astronauti, che trovano poi infinite applicazioni nella vita nostra quotidiana… Insomma, se non c’è ricerca a monte, non ti trovi niente a valle.

Fondazione Teatro La Fenice IL KILLER DI PAROLE
Direttore Andrea Molino Soggetto di Daniel Pennac e Claudio Ambrosini
Libretto e musica di Claudio Ambrosini – Photo ©Michele Crosera

Del resto quella tua curiosità da giovane per quel manoscritto dell’Aulodia di Maderna, caratterizza fortemente un tuo atteggiamento sperimentale di fondo in rapporto agli oggetti e al suono…

È una sorta di bricolage, un agire direttamente sulla materia, che viene dai miei inizi: io vengo da una famiglia di artisti visivi. Mio nonno materno scolpiva: ha fatto ad esempio una delle statue della facciata della Chiesa di San Salvador a Venezia; mio padre invece dipingeva e anche mia mamma disegnava. Io ho vissuto gran parte della mia infanzia con la nonna paterna, ma passavo molto tempo anche col mio nonno scultore e infatti, da bambino, mi dilettavo di scultura… Alle elementari  ho ricevuto anche un premio dal patriarca Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII: avevo fatto un Gesù in ginocchio, sotto il peso della croce… Ricordo ancora che eravamo tutti in fila a S. Marco per ricevere l’attestato e baciare la mano al patriarca.

Vuoi dire che questo fascino per la materialità del suono che ti contraddistingue può risalire, in qualche modo, ad una sorta di dimensione tattile epidermica con la materia vissuta da bambino…

In un certo senso sì. Sono arrivato alla musica anche attraverso la manualità, attraverso il contatto/scoperta con le sorgenti sonore, che mi è sempre rimasto. Il mio concerto per pianoforte e orchestra del 2006, ad esempio, non a caso si chiama Tocar, che significa certo suonare in spagnolo, ma significa anche toccare in veneziano: toccare non solo i tasti ma anche le corde, il corpo dello strumento.
Io infatti sostengo che la definizione linguisticamente migliore del «far musica» sia quella italiana: appunto
suonare, cioè riferirsi direttamente al suono, alla materia, da far entrare immediatamente in relazione con gli altri sensi. Molto efficace anche il tocar spagnolo (che sottolinea appunto l’aspetto del contatto fisico con lo strumento) e poi vengono quelle molto più «distanti» come il to play inglese o anche il francese jouer, che richiamano più una drammatizzazione, un «gioco di ruolo» delle note, uno spettacolo mentale.

Una sorta di elaborazione più culturale, in cui la forma è in un certo senso già culturalmente più pre-costituita

Un approccio più «nordico», in cui prevale la conduzione delle linee sonore, la speculazione conoscitiva per scoprire cosa accade posizionando in un certo modo le parti (contrappunto), o basandosi su degli schemi (come il canone, la fuga) o altri artifici in cui la forma finale deriva da processi collaudati… Invece noi – italiani, ma in particolare a Venezia – siamo sempre stati indirizzati in musica verso il suono. E poi, ancora, nella moda: non solo verso le linee ma anche i tessuti; in pittura: non solo il disegno ma il colore… Qui si torna nuovamente a Venezia e alla sua scuola, in cui a determinare la forma è proprio il colore. Pensa a Giorgione, per il quale si parla di pittura tonale, dei suoi toni di colore, quasi fossero «suoni». Lì non è il disegno, o la matita, ma il colore a generare il tutto, la forma, le proporzioni, i volumi. Come nella nostra musica «il colore» degli strumenti, delle voci, i cori battenti, lo spazio… come vedi un gusto plurisecolare.

Bruno Maderna, Luigi Nono e Nuria Schönberg

Restando sulle esperienze-memorie veneziane, un’altra presenza importante e fondamentale è quella di Luigi Nono, che arriva a questo punto perché precedentemente non avevi avuto modo di conoscerlo personalmente e di avere rapporti con lui ?

Io Nono l’ho conosciuto dopo che lui aveva già sentito un po’ parlare di me come compositore emergente… Gli avevo anche mandato delle mie cose per posta, ma non so se avesse mai avuto tempo di vederle davvero. Diciamo che in entrambi casi, sia Maderna che Nono, erano poco qui. La loro vita, non solo artistica, era spesso fuori: Nono viaggiava, aveva intensi contatti con l’America Latina, Cuba, la Germania; Maderna poi viveva proprio a Darmstadt e nessuno dei due insegnava qui. Nel caso specifico di Nono, se si toglie il caso di Helmuth Lachenmann, che probabilmente è stato il suo unico vero allievo, non è che facesse delle «lezioni» formali, erano lezioni «indirette», erano incontri soprattutto, conversazioni, passeggiate, occasioni… Anche il semplice parlare con questi personaggi dà però la possibilità di percepire l’esistenza delle «stature»…

Una sorta di misura dello sguardo sulle cose…

Sì! Il loro rigore morale nel porsi di fronte alla musica e alla realtà, un po’ come Beethoven, è un fatto formativo… In certi casi basta una frase, e vale più di cento regolette del Conservatorio.

Nono per esempio, quando era a Venezia, mi telefonava e andavamo a mangiare qualcosa insieme, e lì si chiacchierava per tutta la sera, e spesso c’era anche Alvise Vidolin. E per me è stato molto istruttivo che, in una di queste occasioni, mi confessasse: “Oggi ho buttato via tutto quello che avevo fatto nel corso della settimana…”. Se un autore di quel livello che, per esperienza e carriera potrebbe permettersi di fare ormai qualsiasi cosa, viene a dire a te giovane, e senza alcun pudore, senza temere di infrangere il proprio mito: “ho buttato via tutto”, questo mi pare un insegnamento grandissimo. Cioè ti fa capire che non c’è mai un momento in cui puoi abdicare, scendere sotto il livello di guardia: cercare la qualità è una questione morale.

Un prezioso insegnamento, senza dubbio. È vero questo discorso che tu dici del misurare lo sguardo, con le stature dei grandi e delle misure etiche, e questo a maggior ragione quando si è giovani, e si ha la capacità di guardare molto in alto, spinti da uno slancio vitale unico e assoluto e ‘inconsciente’, abbiamo capacità di proiezioni lontane e se qualcuno, ecco i maestri, che ti mettono con la loro opera una sorta di scala, sulla quale poter salire per poter proiettare lo sguardo ancora più in alto, questo è un autentico dono che si riceve nell’avvicinare i grandi…

«Non siamo qui per far finta», ti dicono indirettamente con queste loro azioni: siamo qua per la ricerca, sul fare, sul dire… che non si ferma se non quando ha raggiunto certi risultati. Per poi ripartire.

Su questo potremmo forse parlare di dimensione etica che è fondamentale per il suono, che è un po’ la ragione stessa del suono, non devi rendere conto a nessuno se non al suono…

E a quelli che son venuti prima di te. Ai musicisti che ti hanno preceduto. Io penso che quando nasci – e ciascuno di noi nasce in un certo luogo, in un certo contesto, e forse non per caso – hai la responsabilità di approfondire la ricerca avviata dai tuoi padri, vicini e lontani. È una questione morale, nei loro confronti.

Per me, ad esempio, Giovanni Gabrieli non è certo antico, non resta chiuso nel Rinascimento: è vicinissimo, tanto quanto i miei contemporanei. E sono loro i maestri, i giudici ai quali non sfuggi. Puoi sfuggire forse all’insegnante, che non vede l’errore nel compito; puoi sfuggire al critico che non ti capisce… ma non sfuggi certo, sia detto senza presunzione, alla traiettoria della Storia, nella quale c’è stato un artista in un’epoca, e poi un altro in un’altra e dopo i quali, a un certo punto, un terzo cerca di mettere assieme queste cose in modo nuovo e portare avanti anche di un solo centimetro il confine per chi verrà domani, che a sua volta dirà: bene, fin qua è stata portata avanti la ricerca su come mettere insieme i suoni, i rumori, gli strumenti esistenti, gli strumenti inventati… e da lì proverà ad andare ancora avanti.

Claudio Ambrosini – Leone d’oro del 51. Festival Internazionale di Musica Contemporanea (2007)

Biografia

Claudio Ambrosini (Venezia, 1948). Studi liceali classici, Conservatorio di Venezia, lauree in Lingue Straniere e in Storia della Musica. Frequenti, a Venezia, gli incontri con Bruno Maderna e Luigi Nono, che lo annoverava tra i suoi compositori preferiti.

Ha composto lavori vocali, strumentali, elettronici, sinfonici, opere liriche, radiofoniche, oratori e balletti commissionati da enti come la RAI, La Biennale di Venezia, la WDR di Colonia, il Ministero della Cultura francese, il Teatro La Fenice di Venezia e il San Carlo di Napoli, il Festival delle Nazioni, L’Itineraire, Grame.
Le sue musiche sono state dirette, tra gli altri, da R. Abbado, Luisi, Masson, Muti, Reck, Spanjaard, Störgards,Valade, nei programmi dell’IRCAM di Parigi, della Scala di Milano, delle Fondazioni Gulbenkian di Lisbona e Gaudeamus di Amsterdam, del Mozarteum di Salzburg, della Akademie der Künste di Berlino; della Stagione dei Münchener Philharmoniker, di “Perspectives du XX siècle” di Radio France, all’Autunno Musicale di Varsavia e molti altri.
Dal 1977 si è interessato di computer music. Nel 1979 ha fondato l’Ex Novo Ensemble, nel 1983 il CIRS (Centro Internazionale per la Ricerca Strumentale), nel 2007 l’Ensemble Vox Secreta.

Nel 1985 ha ricevuto il Prix de Rome (primo musicista italiano a soggiornare a Villa Medici, l’Accademia di Francia a Roma). Nel 1986 ha rappresentato l’Italia all’UNESCO Paris Rostrum. Con l’opera Il canto della pelle – Sex Unlimited ha vinto i premi Beaumarchais (Paris, 2005) e Music Theatre Now (Berlin, 2008); con l’opera Il killer di parole ha vinto il Premio della Critica Musicale Italiana (Abbiati, 2010).
Nel 2007 ha vinto il Leone d’Oro per la Musica della Biennale di Venezia, nel 2015 il Premio Play.it! alla carriera.