RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

CONTROVENTO Voci, volti e racconti da un centro d’accoglienza – Io Moussa, a oriente del giardino dell’Eden

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Io Moussa, a oriente del giardino dell’Eden

di Diego Lorenzi

“Prendo in prestito” uno dei migliori romanzi di formazione del ‘900 A Oriente del giardino dell’Eden dello scrittore polacco Israel Joshua Singer, fratello del Nobel Isaac Bashevis, per far affiorare dagli abissi dello memoria il dramma della disperazione, rappresentato in Polonia dalle condizioni estremamente disagiate di molti ebrei poveri dei primi decenni del secolo scorso, paragonandolo a quello di molti profughi contemporanei che fuggono dalla fame, dalla guerra e da una condizione di vita disumana.

“È mattina presto e le ombre degli alberi si allungano oltre le radici, eppure la monotona pianura polacca già boccheggia sotto un sole cocente. Gli alberi tozzi e storti ai bordi della strada sembrano pietre. Non un fremito di ramoscelli, non un fruscio di foglie. Non si ode un canto d’uccello. Anche i mulini sono pietrificati; le loro braccia antiche, rattoppate con tegole sottili di ardesia e assicelle rinsecchite, sono immobili. Solo dai prati riarsi si leva l’incessante frinire dei grilli, interrotto di tanto in tanto dallo zillare delle cavallette, simile al rumore di un tosaerba. In cima a un mucchio di fieno una cicogna dorme sopraffatta dalla stanchezza e dalla calura. Un ebreo scalzo e con la barba nera, una pesante sacca lacera gettata su una spalla, percorre di buon passo lo stretto sentiero pedonale che separa i campi dalla strada. È talmente chino sotto quel fardello che la punta della sua barba impolverata per poco non sfiora la corda avvolta attorno al corpo”.

Il protagonista ebreo del romanzo si chiamava Mattes Ritter del villaggio di Psyak e di lavoro faceva il venditore ambulante – come i nostri primi “Vu Cumprà” –. Percorreva le campagne polacche vendendo un po’ di cianfrusaglie e barattandole con cibo, pelli e qualche spicciolo, per fare ritorno nella giornata dedicata allo Shabbat al suo povero villaggio e alla sua famiglia, dove ad attenderlo trovava la moglie Sara, sfinita dalle numerose gravidanze e dalle fatiche domestiche.

Una via del quartiere ebraico di Lublino, 1937, foto di Roman Vishniac

La storia proseguirà poi con la nascita di un figlio maschio di nome Nachman, il cui nome significa “consolazione e conforto”,  sul quale la famiglia di Mattes Ritter riporrà tutte le sue speranze. Nachman andrà invece incontro ad un crudele destino di illusioni, speranze tradite, incredibili sofferenze ed infine si troverà costretto a vagabondare nella terra di nessuno tra il confine russo e quello polacco, scacciato dal comunismo sovietico in cui aveva creduto, dalla patria polacca, dalla vecchia comunità ebrea, solo e abbandonato da tutti.

Sehma è stata mandata in drogheria a cercare una pentola per la zuppa e una bottiglia di latte. Lodz, 1938 Foto di Roman Vishniac

Non è difficile pensare allo stesso destino di molti profughi dell’Italia e dell’Europa di oggi, che vagano nelle terre e nelle coscienze di ciascuno di noi, sognando come Nachman una rivoluzione che per loro non arriverà mai, stretti nella morsa di un sogno confinato nella terra promessa del giardino dell’Eden, o negli interstizi di una narrazione dove germoglia solo qualche vaga speranza di redenzione. E di riscatto.

Un riscatto oggi rivendicato con orgoglio qui al Centro d’accoglienza, che si insinua dolcemente e scorre gonfio e vellutato tra le note di un vecchio blues popolare, un lamento di dolore, di tristezza e di nostalgia.
È Mamady l’interprete del blues che risuona oggi tra le pareti di un’aula dell’ex Ferro Hotel di Treviso, una voce rinsecchita e prosciugata dall’ombra della guerra e oggi dall’angoscia di un futuro imprevedibile, che si alza lentamente come una cortina nera e impenetrabile.

Mamady e Sara

Un’operatrice lo copre di sorrisi e di complimenti, con una carica esplosiva di umanità che è autentica condivisiva emotiva.

Esco nel cortile – uno spazio che viene usato spesso per alcuni incontri sportivi di cricket, lo sport preferito da alcuni ragazzi dei paesi del subcontinente indiano – assieme a Valentina – un’operatrice “adottata” simbolicamente dalla comunità del Centro per la sua disponibilità umana e professionale e soprannominata “Mamma Africa” –  che coordina un corso di falegnameria “fai da te”, un utilissimo laboratorio di formazione e di apprendistato artigianale, da sostenere e promuovere come biglietto d’ingresso in ogni “comunità” futura.

Valentina, un operatore e alcuni richiedenti asilo al centro d’accoglienza ex Ferro Hotel

E così, mentre cerchiamo di nutrire qualche sogno nel cassetto assieme a loro, dobbiamo come sempre affidarci alla forza del destino, o alla buona stella (mazel tov) di Mattes che sogna l’irraggiungibile Eden, anche se poi il tutto si rivelerà per lui e per la sua famiglia, una crudele illusione.
Comunque,  noi che accompagniamo per mano il destino di Moussa, abbiamo il dovere di credere che esiste sulla terra un albero della vita anche per lui e i suoi compagni e che mai nessun cherubino con la spada sguainata li caccerà dal Giardino dell’Eden. Nel ricordo di Nachman e della sua sfortunata famiglia.

Diego Lorenzi
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Così Egli scacciò l’uomo; e pose a oriente del giardino dell’Eden
cherubini che roteavano d’ogni parte una spada fiammeggiante,
per custodire la via dell’albero della vita
                                                                                          Genesi, 3, 24

A oriente del giardino dell’Eden (Evylin Van Der Wielen, 1972)