RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Credere o non credere? Questo è il (vero) problema dell’arte. Damien Hirst fictive storyteller dei tesori in mostra per la Fondazione François Pinault, di Eleonora Charans

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Dato in crisi da alcuni, senza idee da altri come una Araba fenice, eccolo risorgere con questa mega mostra che dividerà il pubblico, i fan e gli acerrimi nemici del suo lavoro in violentissimi gruppi di opinioni”, “l’arte ha bisogno di storie, non importa quando assurde siano, storie da ascoltare, storie da raccontare”, “l’opera d’arte diventa allora l’impresa nel suo insieme, nella sua costruzione più che nel suo risultato. La storia del relitto è la vera opera d’arte” (Francesco Bonami per “La Stampa”, 6 aprile 2017); “Hirst mostra la post verità sull’arte”, “tra legenda, finzione storica e invenzione archeologica marina, Hirst offre al pubblico il divertissement di individuare che cosa è vero (cioé copia di un originale) e che cosa è sua creazione” (Marilena Pirrelli per “Il Sole 24ore”, 7 aprile 2017); “un delitto perfetto che comprende e scavalca quell’operazione commerciale e finanziaria”, “siamo di fronte a un progetto ben più potente che parla di collezionismo e di follia, di bello e di fantastico, di illusione e di fede di religione di favole, di creazione e comunicazione. Ma soprattutto del bisogno collettivo di credere in qualcosa” (Alessandra Mammì per “D di Repubblica”, 8 aprile 2017); “il popolo dei selfie è accontentato” (Teresa Macrì per il Manifesto, 11 aprile 2017); “un progetto che affascina più per la sua narrazione che per la qualità dei singoli pezzi pur tecnicamente perfetti”, “è destinata a scrivere una pagina di storia dell’arte o perlomeno delle sue mostre” (Carlotta Loverini Botta per “Vogue”, 12 aprile 2017).

Damien Hirst, Hydra and Kali Discovered by Four Divers   Image: Photographed by Christoph Gerigk © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Può sembrare inconsueto iniziare una recensione con un mosaico di citazioni selezionate provenienti da articoli che hanno preceduto questa recensione. In realtà, oltre a fornirci qualche utile suggestione di partenza, ci permette di restituire due dati: 1. che la stampa non specialistica se ne sia occupata; 2. che la stampa specialistica non se ne sia ancora occupata. Ma questa anomalia in effetti è forse riconducibile alla concomitanza con la vernice della Documenta 14 ad Atene svoltasi l’8 aprile e prequel effettivo di quella che avrà luogo a giugno nella tradizionale cittadina di Kassel. Questo evento ha inevitabilmente catalizzato l’interesse della stampa internazionale, ma forse c’è di più. Come annota sempre Bonami nel suo articolo, “In una stagione che come nelle eclissi allinea i pianeti del cosmo dell’arte – Biennale, Documenta e Munster Skulptur Project ognuno intenzionato a fare ombra all’altro – Damien Hirst arriva con la velocità di una meteora capace, senza complimenti, di fare, oltre che ombra, danni inimmaginabili”. Forse la mostra di Hirst richiede perizia e lavoro sia in caso di stroncatura che in caso di acclamazione.
Io, per questa volta, sto con Bonami e con tutti coloro che vedono nella mostra organizzata dalla Fondazione Pinault “Treasures from the Wreck of the Unbelievable” (visitabile fino al 3 dicembre 2017) le potenzialità e la centralità della narrazione (e al potere dell’immaginazione), come motore della progettazione legata all’arte contemporanea. Non più quindi con la narrazione calata dai curatori che l’hanno fatta da padroni da qualche decennio, questa volta è Hirst a stabilire cosa e come esporre, mettendo di fatto all’angolo la curatrice Elena Geuna, che non si mostra troppo dispiaciuta e si fa complice e portavoce dell’artista. A ben guardare successe già nell’insospettabile luglio del 1988 quando Hirst organizzò una mostra di opere sue e di altri amici artisti, si intitolava “Freeze”, presso i Docks Office abbandonati nella zona sudorientale di Londra.

Damien Hirst, Aspect of Katie Ishtar ¥o-landi
Image: Photographed by Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Non sono affatto concorde con Macrì, non me ne voglia quest’ultima. Il popolo dei selfie è oltretutto ovunque, alla Biennale, alla Documenta, ovunque e comunque. Dobbiamo interrogarci sulla portata del fenomeno, oltre che deplorare, capire quali contenuti vengono prodotti e immessi nel web e come questi si rapportano con la fruizione dell’opera. Se Hirst avesse tenuto conto anche di questo aspetto quando ha elaborato i suoi pezzi e ragionato sulla loro sequenza spaziale? Non sarebbe forse un punto a suo favore? In effetti la mostra sembra allestita appositamente per essere fotogenica. Un maquillage attento permette di documentarla e quindi un giorno di storicizzarla, a supporto di quanto sostenuto da Loverini Botta dalle pagine di Vogue. Hirst, per completare la sua opera nella direzione della fruizione digitale, avrebbe potuto anche creare ad hoc un filtro da utilizzare all’interno della piattaforma di Instagram per generare l’effetto di trovarsi sott’acqua, da usare appunto all’atto della postproduzione lampo legata al selfie.
Che si punti il dito sull’imponente budget servito per realizzare il progetto o sulla (conseguente) sfrenata magniloquenza dello stesso, conducendo la filippica con (finto moralismo e) atteggiamento stizzoso da parte di coloro i quali sembrano non essere stati invitati a banchettare, queste si rivelano ben presto motivazioni abbastanza sterili. Posizioni personali che si rifiutano di scendere a patti con il disegno di Hirst e la sua articolazione, che rifiutano scientemente di valutare, con la finalità di screditare puntando sul dettaglio pop, sugli eccessi di sensazione che sono connaturati alla pratica di Hirst. Questa non è una novità, ma una linea di continuità del suo fare artistico, Hirst ha preparato il terreno da decenni in tal senso e sappiamo bene quanto da lui sia impensabile aspettarsi una carezza, semmai, decisamente più probabile, un pugno allo stomaco. Irrit-arte, con l’aggravante, da parte dell’artista, di non fare nulla per nascondere la sua ricchezza, le sue amicizie vip e i suoi collezionisti celebri, quale oltraggio! Di mettersi in posa bellamente, con tanto di lussuosa giacca in pelle di (speriamo finto) coccodrillo. Anche se filologicamente il coccodrillo era animale must have per il collezionismo da Wunderkammern, viene da chiedersi se il rimando fosse voluto.

Damien Hirst, Sphinx
Image: Photographed by Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Oltretutto questo atteggiamento, farsi immortalare side-to-side con le sue opere, preconizzando il popolo dei selfie non è inedito per Hirst: la rete abbonda di suoi ritratti accanto all’opera The Pshysical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (1991), con un’autocitazione riscontrabile nello squalo con le fauci spalancate, all’intero gruppo scultoreo Andromeda and the Sea Monster (sala 7 al primo piano di Palazzo Grassi).
Hirst non ha certamente bisogno della mia difesa né del mio apprezzamento, eppure non ritengo sia giusto liquidare la mostra “Treasure from the Wreck of the Unbelievable” tanto facilmente. Perché gli occhi hanno smesso di sopportare il luccichio dell’oro della sala 13 all’interno di Punta della Dogana? Consapevole di irritare a mia volta, lancio una serie di quesiti consapevolmente provocatorii: chi pensando alla Domus aurea, o ad altri progetti mastodontici dell’antichità, si limiterebbe a pensare ai costi per realizzarla? Oppure al tipo di manodopera impiegata? Il tempo pacifica, il contemporaneo tempestifica, dobbiamo aspettare per vederci chiaro.
La mostra di Hirst non interessa solo ai galleristi o alle case d’asta, agli economisti dell’arte, agli speculatori finanziari, ai collezionisti; essa ci offre degli spunti di riflessione che con il mercato hanno poco o nulla a che vedere.
Pinault, che controlla proprio una casa d’aste – ma  questo per il momento è secondario –, nel suo intervento introduttivo al catalogo, nel decisamente voluminoso catalogo in tono con l’intera operazione, riesce a cogliere un aspetto importante della mostra: “Le opere non rientrano in alcuna categoria accademica ed estetica convenzionale. Sprigionano una forza quasi mitologica e l’osservatore si trova immerso in un sentimento che oscilla incessantemente tra la perplessità e l’entusiasmo. Nulla lo ferma: né la difficoltà, né i codici e i canoni dell’arte comunemente ammessi, né le controversie e i giudizi troppo sbrigativi”. Perché sono di fatto degli originali di falsi, oppure un fake originale, e l’intera operazione rimanda tanto all’arte degli ultimi 20 anni ma anche a questioni museologiche o museografiche, al grande tema che sottende e anticipa la creazione della maggior parte dei musei evergetici: la collezione privata. Ma chi intendesse capire la cronologia, la filologia, l’archeologia, rimarrebbe deluso soprattutto leggendo le scarne e vaghissime didascalie alle opere, anche quando sono isolate e sotto teca a suggerire il loro status di capolavoro. Ma del resto non risiede in questo lo spirito della mostra. Di queste discipline come della storia e della mitologia, Hirst fa un uso assolutamente libero, le utilizza come un cleptomane casuale per riassemblarle , per rendere la sua finzione giustificata e supportata in qualche senso. Tuttavia, non gli interessa veramente vestire i panni di altre figure, non gli interessa, e come potrebbe essere altrimenti, scrivere un saggio scientifico. Per questo mescola i miti, le cronologie e le geografie, in un simultaneo appiattimento.

Damien Hirst, The Sadness
Image: Photographed by Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Avendo come ben noto alle spalle potenti gallerie e potenti collezionisti come Pinault – ma lasciando a latere queste questioni per un attimo –, Hirst ha perseguito un atto di enorme coraggio e ambizione, cercando di portare la staffetta dell’arte oltre, mostrandoci qualcosa di diverso, non del tutto nuovo ma diverso. L’artista sembra andare verso il concettuale utilizzando sia una forma di smaterializzazione (è la storia di sua invenzione, in fondo la vera opera, come afferma Bonami), sia declinando la sua storia attraverso una serie di oggetti. La storia e la massa imponente di opere, smaterializza e materializza insieme, è il regista della sua idea.
Hirst attraverso questa operazione, sposta anche il classico quesito “che cos’è (arte)” virandolo verso “che cos’è vero e cosa non lo è?”. Una domanda che chiama in causa chiunque, non soltanto gli specialisti; separare finzione da realtà è un’operazione che compiamo ogni giorno, tutti quanti, da cittadini non anestetizzati. Mi spiego meglio: Hirst si avvale di una serie di dispositivi di costruzione della narrazione a sostegno della stessa, per renderla maggiormente credibile. Ad esempio, collocando a fianco del Demone di diciotto metri che domina l’atrio di Palazzo Grassi innalzandosi fino al tetto la documentazione (foto, lightbox) che ci mostra il suddetto demone nella sua collocazione sottomarina può indurci a ritenere che sia realtà? Che sia stato veramente dormiente sul fondo del Mare? Può la documentazione a sostegno della storia, favorire il processo della sospensione dell’incredulità? Lo stesso avviene per il video che ci mostra gli archeologi subacquei alle prese con il recupero dei reperti, anche se si rivela tutto fin troppo studiato e piacevole.

Damien Hirst, A collection of vessels from the wreck of the Unbelievable
Image: Photographed by Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Per la sala in cui è collocata la maquette della nave “Unbelievable”, attraverso un touchscreen nel quale possiamo esplorare e ottenere informazioni sul suo carico, sui singoli oggetti che componevano la collezione misteriosa del liberto di Antiochia, Cif Amotan II. Come se ci trovassimo all’interno di un museo scientifico dotato delle tecnologie digitali più all’avanguardia. Hirst ha pensato a tutto. La mostra è doppia perché suddivisa nei due spazi gestiti dalla Fondazione, si tratta tra l’altro della prima volta in cui si sceglie di puntare tutto su un unico cavallo. Ma non è soltanto doppia, è come entrare in un museo enciclopedico o forse addirittura in diversi musei.
E, per rendersi la vita più complicata, ha anche collocato sulla strada degli elementi destabilizzanti, che provocano un lieve spaesamento se non, addirittura, un sorriso. Ha orchestrato la narrazione, ha elaborato la sua articolazione ma si è anche messo sotto scacco. Ha giocato egli stesso con il pubblico, disseminando degli indizi, inaccettabili stando alla costruzione della storia. Mi riferisco a
Goofy, Best Friends, Mickey (rispettivamente sala 8 e sala 9 del primo piano a Palazzo Grassi); si tratta dei ben noti personaggi creati dalla fantasia di un altro visionario, Walt Disney. Ma in fondo è questa la mostra dei tesori dell’Incredibile, una continua oscillazione verosimile e assolutamente incredibile al contempo. Hirst fa e disfa la sua trama, davanti ai nostri occhi.

Sospendiamo l’incredulità e anche il giudizio. E lasciamoci cullare da questa storia, partecipiamo della sua attivazione e dei suoi sfarzi ma senza chiederle di diventare reale. Perché i miti sono paradigmi. Forse pochi hanno notato finora l’importanza della frase collocata un po’ in uno spazio di servizio ma che introduce veramente, è l’anticamera dell’inizio del percorso a Punta della Dogana, con le sue installazioni monumentali “Somewhere between lies and truth lies the truth”, a fianco ad essa uno schermo che ci mostra, ancora una volta, il video del recupero dei reperti.

Eleonora Charans
©riproduzione riservata

 

    Biografia

Damien Hirst nasce nel 1965 a Bristol, cresce a Leeds e dal 1986 al 1989 studia belle arti al Goldsmith College di Londra. Durante il suo secondo anno, Damien Hirst lavora all’organizzazione e alla curatela di “Freeze”, una mostra collettiva nota per essere stata il trampolino di lancio non solo per Hirst stesso, ma per un’intera generazione di giovani artisti britannici.
Dalla fine degli anni ‘80, Damien Hirst realizza una vasta serie di installazioni, sculture, dipinti e disegni con il fine di esplorare le complesse relazioni tra arte, bellezza, religione, scienza, vita e morte. Con i suoi lavori – tra cui l’iconico squalo in formaldeide The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (1991) e For the Love of God (2007), calco in platino di un teschio tempestato di 8.601 purissimi diamanti – Damien Hirst sfida le certezze del mondo contemporaneo, esaminando tutte le incertezze insite nella natura dell’uomo. Attualmente Damien Hirst vive e lavora tra Londra e Gloucester.
Dal 1987 sono state organizzate in tutto il mondo oltre 90 mostre personali sull’artista; Damien Hirst ha partecipato, inoltre, a più di 300 mostre collettive.
Nel 2012 la Tate Modern di Londra, in contemporanea con le Olimpiadi Culturali, ha presentato una grande retrospettiva sul lavoro dell’artista. Sono state organizzate mostre personali di Damien Hirst anche al Qatar Museums Authority, ALRIWAQ Doha (2013-2014), a Palazzo Vecchio, Firenze (2010), all’Oceanographic Museum, Monaco (2010), al Rijksmuseum, Amsterdam (2008), all’Astrup Fearnley Museet fur Moderne Kunst, Oslo (2005) e al Museo Archeologico Nazionale, Napoli (2004). Nel 1995 Damien Hirst vince il Turner Prize.