RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

L’orgoglio della differenza: artiste ebree del Novecento italiano, di Marina Bakos

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L’orgoglio della differenza: artiste ebree del Novecento italiano

di Marina Bakos

Unica nel suo genere la mostra Ebraicità al Femminile. Otto artiste del Novecento presenta un’accurata selezione di opere di artiste che hanno saputo tenere presente il loro essere donne ed ebree nella ferma volontà di perseguire un’identità artistica di totale autonomia e innegabile rilievo. La mostra è stata promossa dalla Comunità Ebraica di Padova e organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune nell’agosto 2013 presso il Centro Culturale Altinate – San Gaetano. A questa, nel 2014, è seguita Artiste del Novecento tra visione e identità ebraica presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale. La seconda esposizione, con l’integrare all’iniziale nucleo di artiste un corposo numero di allieve di Giacomo Balla, ha voluto sottolineare quel particolare clima d’inizio secolo, culturale e politico, che ha visto svilupparsi l’idea di una Capitale moderna e laica grazie anche al contributo di forze innovatrici femminili.

Paola Consolo, Autoritratto, 1932 (Self-portrait – oil on canvas), olio su tela, 70 x 50 cm, firmato Paola Consolo e datato ’32 in basso a destra. Collezione privata

Dopo l’unificazione d’Italia, un contesto effervescente e carico di entusiasmo collaborativo per il progresso della nazione vede operare un ragguardevole numero di intellettuali ebrei, il cui numero va sempre più aumentando nel corso del XX secolo. Se molti fra loro prendono parte a pieno titolo al processo di formazione della nazione contribuendo a forgiare l’ideologia politica e gli interessi economici del paese, altrettanto molteplici sono quelli che si impegnarono nel campo delle arti visive, svolgendo un ruolo importante nella storia dell’arte italiana di quegli anni. Appartenenti alle classi medio-alte e all’élite culturale, concepiscono un’arte variamente declinata: alcuni intrinsecamente latina e mediterranea (volta ad esaltare miti di una grandezza nazionale), altri attenti agli sviluppi dell’avanguardia europea per riaffermare tutta la libertà creativa insita nel liberalismo italiano. Mediando continuamente tra la vita pubblica e la vita privata, tra l’identità religiosa e quella nazionale, essi realizzano un operato sostanzialmente legato e concorde a quello che va consolidandosi sulla scena della cultura europea contemporanea.

Eva Fischer, Addio, 1949 (Farewell – oil on canvas), olio su tela, 54 x 73 cm, firmato Eva Fischer in basso a destra, non datato. Collezione privata

Un campo non abbastanza approfondito resta invece quello dell’universo artistico ebraico declinato al femminile. Se infatti artisti come Modigliani, Cavaglieri o Cagli sono stati ampiamente studiati e rappresentati anche al grande pubblico, artiste come Antonietta Raphaël o Adriana Pincherle sono figure di secondo piano nel mondo artistico contemporaneo o per lo meno non ancora abbastanza conosciute. La risonanza della voce delle donne nella prima metà del Novecento è in generale molto limitata, ciò vale ancor più per le donne ebree. Penalizzate dall’appartenenza ad una minoranza che di per sé ne condiziona l’emergenza, si vedono accomunate alle sorti delle loro contemporanee non ebree dal pregiudizio, tanto infondato quanto radicato, che l’uomo debba essere il solo depositario della vera professionalità; dall’altro, il ruolo che esse hanno ricoperto nell’arco dei secoli in seno all’ebraismo, le porta ad una posizione maggiormente defilata nell’ambito sociale e, viceversa, centrale nella realtà familiare. Non per questo esse sono assenti o esitanti nell’assumere iniziative di primo piano sulla scena culturale e artistica con la massima competenza. Anche perché, in seno alla tradizione ebraica, il valore della cultura è basilare nella formazione individuale e collettiva. Valga per tutti l’esempio di Margherita Sarfatti che legge i classici romantici nelle lingue originali (Goethe in tedesco, Ruskin in inglese e Stendhal in francese) e all’inizio del ‘900 è già apprezzata giornalista d’arte destinata a diventare animatrice indiscussa (e mal tollerata dagli apparati politici del regime) della fondamentale stagione artistica del Novecento Italiano. Plurilinguismo e pluriculturalismo sono valori che contraddistinguono un’attitudine della conoscenza prensile e libera da pregiudizi, propria anche di un’altra protagonista sulla scena artistica tra le due guerre: Antonietta Raphaël, pittrice e scultrice di grande valore, artefice della Scuola romana di via Cavour. Anche l’indagine di realtà a noi più vicine, come quella veneziana, ci regala un tessuto denso di presenze femminili dalla storia romanticamente affascinante (come fu quella di Alis Levi) o più quietamente familiare (come fu quella di Gabriella Oreffice).

Gabriella Oreffice, La spiaggia del Lido, 1923 (Lido beach – oil on board), olio su tavola, 38,5 x 48 cm, firmato G. Oreffice e datato 1923 in basso a sinistra. Collezione privata

Attraverso l’operato di queste artiste si è cercato dunque di proporre una ricostruzione con l’unico merito di voler risvegliare dall’oblio percorsi appassionati e audaci: universi dispersi in cui le donne credevano in quello che facevano e soprattutto lo facevano con passione. Non furono combattenti solo di trincea: vivacità, energia e coraggio le posero in prima linea. Relegarle in una pagina marginale o lasciarle perdersi nella polvere del tempo sarebbe ingiusto e storicamente non corretto.

INTERVISTA A MARINA BAKOS
curatrice della mostra “EBRAICITÀ AL FEMMINILE”

di Denis Brotto

La mostra “Ebraicità al femminile”, nelle due esposizioni di Padova e Roma, ha costituito un momento di imprescindibile valore, in Italia e non solo, tanto per la qualità della componente pittorica espressa, quanto per la significativa attenzione rivolta alla cultura ebraica e in particolare alla figura femminile. Come è nata questa mostra e quali erano i suoi intenti originari?

La Comunità Ebraica di Padova desiderava da tempo presentare al pubblico padovano e non una mostra sull’arte figurativa di artisti ebrei. Quando mi venne sottoposto il progetto ritenni potesse essere maggiormente stimolante gettare le basi per una ricerca in un certo senso innovativa, forse anche coraggiosa, che mirasse alla scoperta di percorsi meno conosciuti al grande pubblico. Anche perché il coinvolgimento femminile nell’acceso dibattito artistico del Novecento fu maggiore di quanto sia dato pensare e molteplici furono le presenze che seppero integrarsi, per sensibilità di contenuti e originalità nelle forme, alle principali correnti artistiche che andavano definendosi. L’allestimento a Roma allargò la ricerca all’ambiente più prettamente romano e soprattutto all’alunnato di Balla che fu fondamentale per il mondo culturale della Capitale d’inizio secolo.

Come si è sviluppata la scelta delle artiste da portare in mostra? Sono state scelte quelle più originali e innovative o è stato applicato ad esempio un criterio di differenziazione tra le opere proposte?

La mostra voleva offrire uno spunto di riflessione sull’identità di genere, sullo spazio e ruolo della donna nella tradizione ebraica e, più in generale, favorire la conoscenza e la comprensione di una realtà come quella della Comunità Ebraica, da anni ben radicata nel territorio cittadino e nazionale. L’esposizione presentava, intorno a una protagonista come Antonietta Raphaël, altre importanti artiste ebree del Novecento, delineando così una storia dell’arte italiana in un’ottica prima di tutto femminile e poi specificamente ebraica. Un’accurata selezione di opere quindi che tenesse conto di una doppia identità: l’essere donne e l’essere ebree. Oltre che artiste, per una vocazione scelta e perseguita con lucida passione.

Silvana Weiller Romanin Jacur, Alberi di luce, 1977-78 (Trees of light – oil on canvas), olio su tela, 80 x 80 cm, firmato sul retro S. Weiller. Collezione privata

La prima cosa che colpisce, nella selezione di artiste e di opere proposte all’interno della mostra, è soprattutto l’impatto cromatico, tanto che il colore sembra rappresentare un ulteriore trait d’union tra le pittrici. Ci può parlare delle diverse accezioni attribuite al colore dalle artiste?

Erano donne che viaggiavano molto e che molto vedevano: personaggi “curiosi”, attratti da mondi diversi e da differenti espressività. Inevitabilmente una cultura internazionale amplia le visioni anche di una creatività personale, la sospinge verso sfide sempre nuove che travalichino limiti e chiusure in un allargamento di orizzonti. Ognuna di loro traduce, trasforma, forgia esperienze internazionali attraverso un fare più personale e intimo.

Gli stili di queste artiste sono diversi e individuali e per questo lo sguardo si appunta inevitabilmente sul primato del colore che le accomuna, sull’espressività reale e simbolica dei cromatismi che scorre dal tocco post-impressionista all’accensione espressionista, al maggior ordine novecentista, all’astrazione, all’informale. Adriana Pincherle e Gabriella Oreffice, sono due pittrici che accendono i toni di una policromia pulsante confrontandosi sulle due sponde opposte dell’Espressionismo e del Postimpressionismo. Adriana, la “fauve” romana, mette tutta la sua vitalità in “pezze di vivo colore” distribuite con eguale irruenza nei celebri ritratti e nelle composizioni di grande e costruttiva intensità cromatica. La Oreffice, esponente di spicco della seconda stagione capesarina, con opere vicine ad un fecondo alunnato presso Galileo Chini, dispiega una straordinaria carica cromatica che si fa via via più scabra e asciutta sino ad arrivare, nei paesaggi, a luminosità più soffuse. Altro genere di pittura è quello di Lotte Frumi nata a Praga e formatasi alla cultura Mitteleuropea. Il suo stile si basa su un antinaturalismo espressionista che si avvale di una luce chiara, a volte livida e di colori freddi cui spesso fa da contrappunto il dialogo acceso di rossi e ruggine. Le figure di Paola Consolo fortemente modellate, vigorosamente plastiche e debitrici all’influsso del Novecento, possiedono una sottile intelligenza del colore che, diventando via via meno mentale, si affida ai rosa segreti, ai grigi minerali, agli azzurri soffusi che infondono alla sua pittura una liricità silenziosa. La pittura di Silvana Weiller si avvale di sfumature sottilmente barocche e veneziane, di stesure dense di luce dolcissima, di impasti di morbide tonalità sognanti. Un operato articolato e pluriforme il suo che muove da sperimentazioni materiche grevi di colore squillante, dove pian piano ogni figuratività sarà rimossa sino a giungere ai monocromi, densi di pece rappresa.

Lotte Frumi, Le lavandaie, 1956 (Washerwomen – oil on canvas), olio su tela, 65 x 80 cm, firmato Frumi e datato 1980 (ma 1956) in basso a sinistra. Società Dante Alighieri – Comitato di Venezia

I disegni di formazione e le prime prove a pastello di Alis Levi nascono sulla scia dei maestri francesi, ma ben presto lasciano spazio a innovazioni di matrice capesarina, vicine a Gino Rossi e a Garbari. Alis si affida prevalentemente all’acquarello: i piccoli paesaggi pittoreschi sono pieni di luce, incastonati in ombre scure e animati dal gioco dei pastelli che crea densità e asperità accentuandone i toni e esaltandone il valore cromatico. Antonietta Raphaël si esprime per intarsi fiabeschi, quasi barbarici, riempie le tele di pettini, di pelli di leopardo, di tastiere di piano, di chitarre. Mescola magia e cabala con potenza inaudita, non ha mai dubbi sul suo valore e non ha bisogno di consensi per continuare, o cambiare registro produttivo: a un certo punto lascia la pittura e comincia a scolpire. Stessa energia, stessa esuberanza, stessa imprevedibile emotività. Un raffinato quanto sapiente sfruttamento del colore sono la forza della personalità artistica di Eva Fischer che tesse architetture d’incanto, siano esse ricche di figure, case, barche, biciclette. L’eleganza del segno, lieve e calibrato, contorna forme fantastiche dense di luce, rette da linee impercettibili e da colori che si sommano gli uni sugli altri. Dilaga il colore in liquide trasparenze, accese da lampi improvvisi, a volte caldi, spesso cristallini. La materia è trasfigurata: è luce che da fisica si fa spirituale.

Nel suo saggio di presentazione alla mostra, lei osserva come non si possa scindere l’espressione artistica in arte maschile e arte femminile. Tuttavia è implicita l’importanza e la novità di sguardo proposti in questa mostra e integralmente rivolti al mondo femminile. In questo solo apparente paradosso, quali sono a suo avviso le implicazioni socio-culturali che determinano una necessità di osservare in modo così specifico l’arte femminile?

La convinzione che si possa parlare di arte al femminile e arte al maschile è uno stereotipo alquanto trito, ma purtroppo, a tutt’oggi, non completamente superato: ciò che conta veramente dovrebbero essere talento e serietà professionale. Ho avvertito la necessità di evidenziare un’artisticità declinata secondo un binomio di doppia minorità, femminile ed ebraica per l’appunto, rimasta a lungo ai margini di una pagina scritta a più mani, essenzialmente maschili. Si è configurata pertanto una ricerca sulla vicenda dell’arte nell’Italia del Novecento che travalichi emarginazioni sociali o limitazioni dovute a nascita, censo, appartenenza religiosa. Nella mostra a Padova e poi in quella di Roma (dove la ricerca fattasi maggiormente capillare indagava sul territorio romano e soprattutto sull’alunnato balliano) ho voluto dare risonanza all’altra metà dell’avanguardia, all’altra faccia della medaglia costituita da sperimentatrici geniali e infaticabili, promotrici di cultura esse stesse. Un luogo comune, ben radicato nell’immaginario collettivo, è che la storia sia fatta dagli uomini. In un elenco di modelli da proporre alle prossime generazioni o di figure rappresentative da ammirare, dove sono le donne da ricordare? Loro, non si sa come, scompaiono scivolando fra pagine di dimenticanza.

Invece molte furono coloro che si dedicarono all’arte e alla cultura per vera passione e difesero con grinta una professionalità coraggiosamente conquistata per far valere la loro voce, partendo da una condizione di svantaggio, esposte a sottovalutazione, a misconoscimento e anche all’espropriazione del loro apporto intellettuale. A volte ricoprirono il semplice ruolo di portavoce, molto più frequentemente rappresentarono la consistenza di una realtà attiva e complementare all’universo maschile. Non dovrebbe meravigliare che personalità tanto complete nella femminilità e nella normalità familiare abbiano saputo essere altrettanto vigorose nell’espressività artistica, né constatare come siano state in grado di condurre parimenti una normale vita di moglie e madre e di artista: certo non tutte, ma la maggior parte. Deve invece stupire come troppo frequentemente la partecipazione di queste artiste, pur ricca di interesse storico, sociale e pittorico, risulti essere ancor oggi quasi del tutto inesplorata sotto il profilo scientifico.

Antonietta Raphaël Mafai, Lamentazione di Giobbe, 1967 (Job’s lament – oil on canvas), olio su tela, 160 x 200 cm, firmato Raphaël e datato Roma 1967 sul lato a destra. Collezione Berti

Le artiste presenti in mostra rappresentano anche una importante espressione del mondo ebraico lungo il corso del Novecento. Quali sono allora i principali riferimenti alla tradizione ebraica che vengono a rivelarsi attraverso queste opere?

L’età dei lumi e il conseguente abbattimento dei ghetti coincise con l’emancipazione ebraica e con un processo di assimilazione come mai prima nella storia della diaspora; uguale per ambo i sessi. Essa si plasmò attraverso le vicende dell’Unità d’Italia e fu fenomeno capillare in quella storia della diaspora che forgiò individui padroni del proprio destino, finalmente liberi anche di amalgamarsi alla società circostante. L’appartenenza ad una minoranza religiosa e sociale, non ebbe carattere discriminatorio: gli ebrei italiani dall’Unità d’Italia fino alla fine della Prima Guerra Mondiale, si sentirono (e tali furono considerati) prima di tutto italiani, accomunati ai loro concittadini da un forte amore di patria. E così sarà sino ben oltre il 1918; solo con la promulgazione delle Leggi Razziali del 1938 si creerà una cesura drammatica e un tragico sbigottimento che getterà nello sconforto e nel terrore tutta la compagine ebraica italiana. Anche tutte le espressioni artistiche possono essere ricollegate a questo sentimento egualitario che non avvertiva la necessità di ribadire l’appartenenza ad un’identità altra. Questo riguardò molti, non tutti. Perché ci furono comunque artisti che invece lo riaffermarono con forza. Chagall ne è l’esempio più vivace e sostanziale, ma anche Raphaël non dimentica neppure per un attimo le sue origini. Che dico: lei le sbandiera come fiore all’occhiello. Antonietta Raphaël rappresenta la punta di diamante di una cultura fortemente ebraica e fortemente askenazita.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale sappiamo tutti cosa successe. Il desiderio di ricominciare passa attraverso l’oblio del male assoluto: la rimozione diventa un imperativo categorico con tutti i danni che essa ha comportato. Così fu per molte, la maggior parte, ma non per tutte.

Pensa che ci sia stato un riflesso degli eventi legati al nazifascismo e alla Shoah nella pittura delle artiste ebree? La pittura può essere stata, almeno per alcune di loro, una sorta di esigenza di sottrazione o rifiuto dall’orrore di quel mondo?

Tutto il mondo è stato vittima della Shoah, non solo gli ebrei: loro certamente molto più rispetto ad altri e i danni maggiori nascono principalmente dalla rimozione che fu fatta quando invece si sarebbe dovuto procedere ad un’operazione di rielaborazione. Ma tant’è. Le artiste in mostra a Padova (e a Roma) non parlano di Shoah, rimuovono e ricominciano a vivere come sanno e come possono. Ma siamo certi che gli astratti materici, densi, inquietanti, dolorosi di Weiller non abbiano dentro, in qualche modo, quel terribile vissuto? A mio avviso il processo verso il materico e l’astratto compiuto dall’artista, pur dettato da profonda conoscenza e sensibilità artistica, mai esula da vicende di una storia più personale. Ognuna di loro trova nell’arte un modo per andare avanti e per superare; la maggior parte non racconta perché, si sa, l’orrore non ebbe una voce adeguata. Ma ci sono sempre delle eccezioni: Raphaël con le sue sculture è testimone in presa diretta e Fischer tiene un diario visivo nel dopoguerra, ben espresso dalle opere in mostra.

Antonietta Raphaël Mafai, Autoritratto con violino, 1928 (Self-portrait with violin – oil on board), olio su tavola, 52,3 x 53,5 cm, firmato Raphaël e datato ’28 in basso a destra. Collezione Elena e Claudio Cerasi

Un ultimo aspetto che sembra legare in modo simbiotico l’arte di Consolo, Fischer, Frumi, Levi, Oreffice, Pincherle, Raphaël e Weiller è la trasversalità delle conoscenze. Si tratta infatti di artiste che hanno legami diretti con il mondo della cultura (basti pensare a Alis Levi e Adriana Pincherle). Ci troviamo dunque di fronte ad una pittura colta, che conosce la tradizione dell’arte pittorica, ma che ha una altrettanto approfondita conoscenza della letteratura e della musica. Ci può dire quali sono a suo avviso le influenze e i richiami in merito alle cosiddette “altre arti” presenti nelle opere di queste artiste?

La donna ebrea ebbe sempre il sostegno di una cultura elitaria impartitale sin dalla nascita, per ceto sociale e per tradizione. Supportata da un plurilinguismo e da un internazionalismo tutt’altro che scontato, seppe essere promotrice di cultura e punto di riferimento per cenacoli di letteratura, poesia, musica e arte; non sottraendosi mai ad una partecipazione produttiva, lottando piuttosto contro diffidenza e stereotipi. Facilitate da una sicura padronanza delle lingue e da quel desiderio di viaggiare, per molti ebrei quasi endemico, furono indistintamente attratte dalla conoscenza di mondi ed espressività eterogenei, con i quali colloquiarono ininterrottamente. E ciò rappresentò fenomeno affatto trascurabile di una concreta partecipazione ad un clima cosmopolita di maggior respiro. Mettendo a frutto lunghi soggiorni nelle capitali europee o in luoghi lontani, seppero approfondire l’arte del passato e aggiornarsi costantemente, tramite visite a gallerie ed esposizioni d’arte, su tematiche più contemporanee.

Quello di Margherita Grassini Sarfatti fu l’esempio più emblematico, lei che in età matura diventò uno dei critici d’arte più rispettati e si circondò, nel frequentatissimo e famosissimo salotto in Corso Venezia, di esponenti della cultura internazionale ma soprattutto di giovani talenti artistici. Sarfatti fu senz’altro la figura più carismatica, ma molte altre si distinsero per il vigore con cui animarono un’intellettualità di grande risonanza. Bona Benvenisti Viterbi, discendente da quel Lorenzo da Ponte che fu librettista di Mozart, fu giornalista, scrittrice e musicista di grande competenza e creò un importante circolo per la Padova d’inizi secolo in cui si disquisiva dottamente di letteratura e musica. Alis Levi trasformò la sua abitazione, a Venezia prima e a Cortina più tardi, in uno dei salotti più esclusivi per incontri e concerti dove nomi come Maurice Ravel, Alma Mahler, Alfredo Casella, Felice Casorati, Guido Cadorin, Medardo Rosso, Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio furono solo alcuni di un lungo elenco di habitués. Altra figura di spicco di un milieu elitario e raffinato fu la pittrice Amelia Almagià Ambron, madre del ben più noto Emilio, che fra gli anni ’40 e ’50 ad Alessandria d’Egitto e a Roma si circondò di artisti tra i quali, oltre a Balla e Antonio Mancini suo maestro, Marinetti, Giovanni Colacicchi e Mario Tozzi. L’artista, successivamente alla grande guerra, va ricordata per la sua fraterna amicizia con Giacomo Balla e la sua famiglia che ospitò ripetutamente nella tenuta di Cotorniano nelle campagne senesi e più tardi, dal 1926 al 1929, a Villa Ambron ai Parioli.

Adriana Pincherle, Natura morta con rose e fichi d’India, 1947-49, olio su tela. Casa Museo Alberto Moravia, Roma

Le frequentazioni della Roma degli anni Trenta fa di Adriana Pincherle una vivace esponente della cultura contemporanea. “Invece che i pittori frequentavo piuttosto scrittori e intellettuali: era in parte ineluttabile perché la sera uscivo spesso con Alberto [Moravia]. Andavamo da Rosati, e lì vedevo Landolfi, Pannunzio, Angioletti, Maccari, qualche volta Delfini e De Libero”. Trasferitasi a Firenze con il marito Onofrio Martinelli trasformò la loro casa in sede di incontri fra amici e conoscenti. Come lei stessa diceva “Onofrio non amava molto frequentare i pittori, […] incontravamo di più i letterati. E dunque Bigongiari, Bonsanti, Loria, Montale, Gadda”. Tutte fecero della cultura in senso lato un’espressione autentica della propria esistenza.

Denis Brotto
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Marina Bakos – Note biografiche

Marina Bakos lavora come storica dell’arte dedicandosi principalmente alla curatela di artisti del Novecento. Nata a Belluno e vissuta a lungo in Toscana e in Sardegna, ha frequentato il corso di laurea in psicologia. Dopo un impegno protrattosi per anni nel campo della grafica pubblicitaria e della moda, ha conseguito la laurea in storia dell’arte e la specializzazione in arte contemporanea. Oltre a varie pubblicazioni su riviste del settore o articoli su artisti del contemporaneo come Antonio Ievolella, ha curato, tra l’altro, le mostre Silvana Weiller Romanin Jacur – Dipinti e parole nel gennaio 2011, Silvana Weiller Romanin Jacur – Sul filo del tempo 1948-1968 nel giugno 2012 e Ebraicità al femminile. Otto artiste del Novecento nell’agosto 2013. Nel 2014 ha seguito la curatela di Artiste del Novecento tra visione e identità ebraica per la Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale e nel 2016 presso la Galleria Cavour di Padova Ariela Böhm. La forma del pensiero.

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