RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

“Salvatore Sciarrino, percezioni sottili, fra sogno e veglia”, di Renzo Cresti

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Il Leone d’oro 2016 alla carriera per la musica è stato assegnato a Salvatore Sciarrino. L’8 ottobre la Biennale ha organizzato un incontro con il maestro, il quale ha incontrato il pubblico nella Sala delle colonne. Per riflettere sulla figura di Sciarrino, pubblichiamo la scheda critica che Renzo Cresti gli ha dedicato nel suo libro Ragioni e sentimenti nelle musiche europee dall’inizio del Novecento a oggi, lim@lim, Lucca 2016.

 

Salvatore Sciarrino (Studio Pierrepi)
Salvatore Sciarrino (Studio Pierrepi)

La musica di Sciarrino (Palermo 1947), già al suo apparire negli anni Settanta, fu di un’assoluta originalità, non solo in ambito italiano ma internazionale, semmai fu notata la difficoltà a evolvere o trasfigurare quella unicità, ma, in ogni caso, il percorso artistico del maestro siciliano si staglia sopra quelli dei compositori della sua generazione. Sciarrino fu sostanzialmente autodidatta,[1] aderì a quella tendenza che si volse alle ricerche di notazioni particolari, come in Prélude (1970), sperimentazioni sulla notazione che portarono a soluzioni foniche nuove e che saranno importanti per la scrittura personale che Sciarrino metterà a punto negli anni seguenti. Una ricerca grafica non fine a se stessa ma come rimando simbolico. Si rivelò all’attenzione generale nella seconda metà degli anni Settanta; da giovane praticò anche le arti figurative, una pratica poi abbandonata ma che formerà in lui un senso del segno esile e raffinato e una sensibilità al colore sottile ed evanescente. La scrittura è costruita su suoni pulviscolari, formata da figurazioni veloci e impostate su armonici che rendono il frusciare della musica simile a un soffio, impalpabile e ai limiti di un silenzio panico. Una musica che si pone in regioni liminari che richiedono una percezione sottile, perché il suono è sempre ai limiti del silenzio, involucro cosmico dal quale provengono e nel quale subito rientrano; il suono che emerge dal silenzio e vi ritorna viene visto come un fenomeno epifanico, come la bellezza della nascita. Gli eventi sonori sono echi della memoria, una risonanza dell’inconscio, un’eco di quella profondità che si nasconde in superficie. Tecnicamente si richiedono modalità particolari, spesso virtuosistiche, come l’emissione di armonici agli archi e ai fiati, risonanze secondarie, utilizzo di registri particolari, fantasmagorici arabeschi che fluttuano nell’aria, un tessuto musicale vibratile, fluttuante e ricco di sfumature cromatiche e dinamiche, ai limiti col silenzio, il tutto all’interno di profili formali netti e chiari. I brani composti fra gli anni Settanta e Ottanta hanno tutti queste caratteristiche, da Sonata da camera (1971) a Il paese senz’alba (1976), da Il paese senza tramonto (1977) a Che sai, guardiano, della notte? (1979), brani che esprimono l’impalpabilità di forme in continuo movimento, da Introduzione all’oscuro (1981) alla polifonia liquescente di Let me die before I wake (1982) a Fra i testi dedicati alle nubi (1989), una poetica rivolta al notturno e alle forme-non-forme delle nuvole, sempre cangianti e in movimento; inoltre le Sonate pianistiche, iniziate nel 1965 (la quinta è del 1995). Figure musicali fluide e finemente elaborate in micro variazioni di arabeschi preziosi. A Sciarrino non interessa tanto il suono isolato, ma le relazioni intervallari con leggi direzionali.

Nel 1977, in occasione delle sue Variazioni per violoncello e orchestra alla Biennale di Venezia, Sciarrino descrisse la sua poetica in modo esatto, erano gli anni in cui la sua scrittura si era perfezionata.

Non si deve confondere una delle caratteristiche principali della mia musica, l’aspetto utopico, con un semplice fatto virtuosistico: fondamentale è la tensione ai limiti della percezione auditiva, massimamente al limite di velocità, l’approssimarsi cioè al punto in cui si percepisce non più una successione di suoni ma un unico evento sonoro, sfruttando il fenomeno definibile come inerzia auditiva. […] Il timbro non è percepito più soltanto come colore ma determina la struttura linguistica e le prassi esecutive: siffatta concezione restituisce al suono, nell’inscindibilità delle sue componenti, una nuova organicità. […] Il suono è massimamente articolato in unità figurali di grande ricchezza interna, è privo di attacco (viene sempre come da lontano), così come l’intera figura non ha contorni e compare fluttuando. Le unità si articolano quasi sempre in una sorta di hoquetus. […] Ciò che imprime dinamismo a un decorso altrimenti statico è il ricorrere a unità di maggior peso dinamico, diverse timbricamente, a unità più dense o l’affondo nel grave di una musica tutta tessuta ai registri superiori.[2]

Per ascoltare bisogna svuotare la mente, disintossicarla dalle incrostazioni degli ascolti omologati. La sua scrittura individuò presto una peculiarità di effetti che fece scuola, infatti, molti furono i compositori che cercarono di imitare questa caratteristica che consiste nella realizzazione di una schiuma di suoni ondeggiante, aerea e diafana, una polvere sonora rarefatta che si espande dal silenzio, inteso non come vuoto, ma come involucro che abbraccia i suoni. Gli interventi musicali sono brevi, di bisbigliante sottigliezza coloristica, in un’impostazione a incastro, composta da un ingegnoso congegno di sussurri fonici: vi è un titolo di un brano per orchestra, Soffio e forma (1995) che potrebbe riassumere la poetica e la prassi compositiva di Sciarrino: refoli sonori che alitano all’interno di sagome formali trasparenti ma precise. Sciarrino dice che «Il problema compositivo non è tecnico o teorico, bensì un problema di trasformazione del pensiero» e che questo comporta il travaglio dell’artista: «Il principio della scelta, che rende morale lo stile, è di fatto la base cosciente della cosiddetta creazione artistica».[3]

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Salvatore Sciarrino (Studio Pierrepi)

Anche al teatro Sciarrino giunse presto, a 26 anni scrisse Amore e Psiche, opera basata su una concezione teatrale a-tematica e volatile. La linea incorporea, la ricerca timbrica evanescente, i vibrati, i trilli, i glissati, gli echi e i passaggi virtuosistici (affrontati in un nuovo rinascimento strumentale) rimangono una prassi costante anche nei lavori successivi. Dagli anni Ottanta in avanti, il maestro abbina la polverizzazione dei materiali a una ricomposizione, che potremmo definire ‘alchemica’, con altri suoni elaborati minuziosamente, in cui l’ambito delle frequenze si contare e si dilata velocemente, come nella Sonata II, la quale dimostra la convivenza fra una sonorità liquescente e una più compatta.[4] In ogni caso, la musica rimane sostanzialmente monodica, esclude la dimensione ritmica e quella armonica, un monodia che occupa lo spazio.

Il problema del tempo (musicale) è stato affrontato in maniera molto approfondita dalla musica del Novecento, partendo da Debussy, Stravinskij, Webern fino a Stockhausen e oltre, anche Sciarrino vi dedica molte attenzioni, infatti, è fondamentale capire che il tempo, nella sua musica, non scorre in maniera continuativa e regolare, ma discontinua e relativa, una discontinuità temporale che porta pure a una irregolarità spaziale, spezzando le leggi della prospettiva classica.

Salvatore Sciarrino (Studio Pierrepi)

La coscienza del tempo è una relazione fra istanti. […] La mente esce dal presente, va nella memoria, mette in relazione con gli eventi precedenti l’evento che ha ascoltato, rientra nel presente e così via. […] La continuità temporale è dunque fatta di piccole discontinuità di coscienza. La nostra mente integra i momenti di vuoto. L’intermittenza è continua e serve a confrontare ogni istante di musica con gli istanti già passati. […] Tale processo di interazione fra istante e memoria rende possibile percepire e concepire la forma musicale, rende possibile percepire e concepire lo stesso divenire musicale. […] Ordinare gli elementi di un linguaggio significa metterli in relazione, cioè organizzarli.[5]

Una tipologia organizzativa utilizzata da Sciarrino è la forma a finestra ossia il far ricorso contemporaneamente a due diverse prospettive temporali, in una il tempo scorre e rimane sullo sfondo mentre nell’altra il tempo si immobilizza e diviene in primo piano (un po’ come le finestre in un ipertesto); la finestra è una forma spaziale che interagisce con la temporalità, ritaglia il tempo, creando una discontinuità temporale e spaziale, da una parte si vuol narrare e dall’altra si vuole fermare il racconto sonoro per far risaltare alcuni particolari, un buon esempio di questo metodo di procedere è Cadenzario (1991) realizzato attraverso la messa in forma di una serie di tagli che corrispondono alle cadenze prese in esame, le quali vengono assemblate come le finestre di una casa, nella quale il muro corrisponde al contesto da cui tali cadenze vengono estrapolate. Altro esempio è il pezzo per flauto Come vengono prodotti gli incantesimi (1985), dove numerose finestre interrompono il susseguirsi dei suoni deboli e potenti, infine, finestre e processo continuo dei suoni si sovrappongono creando, per accumulo, la forma conclusiva. La produzione per flauto costituisce un vero e proprio corpus dove lo strumento viene trattato in maniera così straordinaria da poter dire che, dopo queste opere, il flauto e per estensione gli altri strumenti a fiato, non sono più gli stessi, hanno acquisito modalità nuove sia dal punto di vista poetico sia da quello tecnico-manuale e sia da quello squisitamente compositivo. All’aure in una lontananza fece storia, perché lo stile sciarriniano era perfettamente delineato e si ripeterà nei brani flautistici e non (questa ripetizione degli stilemi fu un’accusa che venne rivolta al maestro). Visioni oniriche, fantasmagoriche, metafisiche, mitologiche che appartengono al pre-categoriale sono evocate dai fruscii e dal silenzio, che è il silenzio degli oracoli, fondamento di ogni possibile dire.[6]

Per il teatro, dopo la giovanile Amore e Psiche, seguirono altre prove che segnarono sia l’attitudine teatrale di Sciarrino, la sua vocazione alla lieve e labile narrazione, sia l’affermazione del suo personalissimo modo di raccontare e di nascondere, di evocare e di tacere, di rievocare e di favoleggiare; in pochi anni si susseguirono Aspern (1978), Cailles en sarcophage (1980), Vanitas (1981) e Lohengrin (1983). In Vanitas, per certi aspetti l’opera emblematica di Sciarrino, predomina un’atmosfera appannata, realizzata attraverso arpeggi che progressivamente si svuotano: «È una gigantesca anamorfosi di una vecchia canzone – Stardust – della quale conserva, in modo misterioso, un profumo effimero. […] Le canzoni, sul piano della musica, rappresentano un po’ l’equivalente dei fiori: belle sì, ma effimere. […] Vanitas è un Lied di proporzioni mai udite. […] Un’ipotesi di teatro povero».[7] Interessante è la concezione del tempo circolare, che più volte ritornerà nelle opere sciarriniane, una temporalità non direzionale ma sfuggente, ambigua ed enigmatica, rivolta all’interiorità; analogamente è inafferrabile lo spazio, riempito d’echi. Lohengrin è su libretto dello stesso Sciarrino e di Pier’Ali da Laforgue, il testo segue l’ironico racconto Lohengrin figlio di Parsifal, da cui vengono estratte frasi e parole affidate pressoché totalmente alla figura di Elsa che deve affrontare vari effetti vocali che s’intrecciano con quelli strumentali (16 solisti), in una dimensione onirica che, insieme a quelle mitologiche e fantasmagoriche, è quella più congeniale allo stile musicale e drammaturgico di Sciarrino, perché consente la sospensione del tempo e l’evocazione di uno spazio interiore.

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Fondazione Accademia Chigiana, Carnaval di Salvatore Sciarrino (RAI-Radio3)

Al 1986 risale l’incontro con Alvise Vidolin, dal quale Sciarrino apprende l’uso del live electronic come elemento progettuale, al tempo Sciarrino stava iniziando a lavorare all’opera Perseo e Andromeda (1991) che fu il suo primo lavoro basato su suoni generati in tempo reale da quattro computer che operano per sintesi sottrattiva ossia agiscono attraverso filtri che selezionano i suoni dal suono bianco. Il riferimento alla mitologia consente a Sciarrino quella stessa lontananza che gli permette il ricorso al sogno, alla notte o alle nubi (Nuovolario, 1995) ossia di non affrontare in maniera diretta e vicina un argomento ma di trattarlo come assenza, separato dalla concretezza della contingenza, tecnicamente questo avviene grazie al ricorso a leggere profilature e a risonanze. Il teatro è anche vocalità, e una ricerca di Sciarrino riguarda l’uso nuovo delle modalità del canto, aspetto evidente in Perseo e Andromeda ma ancor più nella fortunata Luci mie traditrici (1998) dove il fulcro dell’opera sono proprio le voci, attorno alle quali girano i suoni strumentali, creando un interrotto flusso di coscienza.

Il primo nucleo dell’opera Macbeth risale al 1976 e verrà completata nel 2001, porta come sottotitolo ‘tre atti senza nome’, innominabili perché incentrati su azioni violente e criminali: «Orrore, orrore, orrore / Ah né lingua né cuore / possono darti nome» recita il libretto dello stesso Sciarrino. Due sono i gruppi strumentali/vocali che disposti vicino o lontano dal pubblico hanno il compito di creare effetti di adiacenza e separazione dalle figure allucinate che volteggiano nello spazio. Sono da ricordare anche l’estasi di un atto, Infinito nero (1998), l’originale musica per pupi siciliani Terribile e spaventosa storia del Principe di Venosa e della bella Maria (1999), l’opera Da gelo a gelo (2006)[8] e il ‘quasi monologo circolare’ La porta della legge (2009), come sempre in Sciarrino occorre vedere/ascoltare al di là dei segni, ponendosi domande più che risposte. Le ragioni di Sciarrino sono quelle d’indagare il nascere della creazione musicale e i meccanismi della conoscenza, con sentimenti che si rifanno a una sorta di navigazione notturna, fra la mistica del silenzio e dell’ignoto e il razionale legame con un passato di tipo archetipico sia esso personale (memoria) sia storico (le forme barocche che vengono trasfigurate da una mente visionaria), non interessa il passato storiografico ma il presente del passato.

Un nuovo recitar cantando filtrato attraverso un’immaginazione quasi surrealistica, questo avviene nel teatro ma anche le composizioni strumentali rimandano a una scena virtuale, a un teatro della memoria. L’ultimo suo brano strumentale, per soprano e ensemble, è Immagina il deserto, in prima esecuzione alla 50ma Biennale di Venezia; in attesa dell’opera nuova, Ti vedo, mi sento, ti perdo, per la Scala e per la Staastoper di Berlino, possiamo senz’altro concludere che la musica di Sciarrino si pone quale alto punto di riferimento nel panorama internazionale del mondo musica.

Renzo Cresti

Musicologo e musicista, è docente di Storia ed Estetica della Musica presso l’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini” di Lucca.

 

[1] I primi brani risalgono a uno Sciarrino diciannovenne, quali Sonata per 2 pianoforti del 1966 e Berceuse composta nell’anno successivo, rivelando, seppur in maniera ancora da sviluppare, quella tendenza ai suoni fantasmagorici che gli sarà propria. Cfr. www.salvatoresciarrino.eu

[2] Salvatore Sciarrino, Autobiografia, in Autobiografia della musica contemporanea, cit., pp. 169, 173.

[3] Salvatore Sciarrino, Carte da suono, CIDIM, Roma 2001, pp. 63, 40.

[4] Salvatore Sciarrino, Le figure della musica, Ricordi, Milano 1998, sulla sua Sonata II il maestro così si esprime (pag. 75): «Gli accordi disarmonici dapprima scandiscono il silenzio. Da quando sgorga il flusso cangiante, divengono motivo di frammentazione e verranno sostituiti da generazioni di altri elementi: grappoli densi di suono, poi accordi armonici trasparenti. Gli accordi armonici suonano un po’ come campane e sorgono gradualmente dal basso, infine, invadono l’intero campo sonoro rispondendosi dagli estremi registri. […] Il tessuto fluido è come una marea poco afferrabile. Su di esso le interruzioni giocano una doppia funzione di punteggiatura e di propulsione. […] La composizione viene immersa nelle risonanze, e ne ricava un timbro inconfondibile e un ambiente artificiale. Eccetto che un istante centrale emozionante, di silenzio vero, anche la Sonata II galleggia nel vuoto echeggiante, a cui la musica di oggi fa continuo riferimento».

[5] Salvatore Sciarrino, Le figure della musica, cit. pp. 60, 61.

[6] Cfr. Renzo Cresti, Un orecchio d’insetto e uno da gigante, in «FaLaUt», anno VII numero 27, Pompei ottobre-dicembre 2005, pag. 10.

[7] Salvatore Sciarrino, Carte da suono, cit., pp. 79, 80.

[8] «Scrivere anche i libretti delle mie opere è stato un esercizio durato molti anni. […] Il testo Da gelo a gelo si è evoluto con un’enorme velocità, nel momento in cui ho cominciato a metterlo in musica, mentre prima era quasi un’opera letteraria, poi ha preso la sua fisionomia proprio perché la musica può dare tutte le sfumature dei personaggi, la parola deve servire a questo. E in qualche caso viene modificata in ragione della drammaturgia», in Ricciarda Belgiojoso, Note d’autore, Postmedia book, Milano 2013, pag. 47.