RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

«Sound&Art – Dall’arte del suono al suono dell’arte». Seconda parte (Michelangelo Pistoletto e Pinuccio Sciola)

[Tempo di Lettura: 18 minuti]

Sound&Art
(Seconda parte)

Michelangelo Pistoletto e Pinuccio Sciola

 

«Nel manifesto L’arte assume la religione è riprodotta la fotografia, fatta da Paolo Persano, di un grande specchio che avevo collocato sull’altare della cappella di Sansicario. Quello specchio riflette e riassume, emblematicamente, tutte le rappresentazioni liturgiche. In tal senso l’arte assume la religione. Lo specchio posto dall’artista sull’altare mette la religione nel suo costrutto sia la persona singola di fronte a se stesso, cioè al proprio giudizio. Durante la performance alla Galleria Persano, per togliere il senso di sgomento che proviene dalla frase: È l’ora del giudizio scritta sul muro, spiego che è venuta per l’umanità l’ora di passare all’età adulta, dunque di ‘mettere giudizio’.
E la religione come ha risposto a tutto questo?
Per ora non ha risposto.» (Michelangelo Pistoletto)

Michelangelo Pistoletto, L’arte assume la religione, 1977. Specchio collocato sull’altare della cappella di Sansicario

 

LE TROMBE DEL GIUDIZIO

di Francesca Rossato

          Nel complesso architettonico di Forte Marghera, fortificazione austriaca divenuta base militare della seconda guerra mondiale si è svolta, nell’ Edificio 35, la prima edizione del festival Sound&Art in cui la Musica e il Suono si sono incontrati con l’ Arte. A rendere possibile questo connubio è stata la presenza di tre opere che più esprimono l’essenza della poetica degli artisti che li hanno concepiti: Il Violino di Jannis Kounellis, Le Pietre Sonore di Pinuccio Sciola e Le Trombe del Giudizio di Michelangelo Pistoletto. Si può presagire subito ciò che hanno permesso di realizzare queste tre presenze all’interno del luogo dove sono state collocate ovvero quello di essere opere d’arte, ma di più ancora essere il fulcro, il punto di equilibrio tra “tattilità visiva” e Suono.

Azione durante l’inaugurazione della mostra Michelangelo Pistoletto. Divisione e moltiplicazione dello specchio. L’arte assume la religione. Galleria Giorgio Persano. Torino, 1978

          Opere d’arte che hanno in sé il concepimento del suono e che “risuonano“ attraverso le musiche e le performance sonore che si sono svolte attorno a loro. Protagoniste del festival, ma presenze silenti che come colonne immaginarie si distribuivano in uno spazio vuoto proprio di questa qualità, così sono state le tre lucenti trombe che Michelangelo Pistoletto ha reso disponibili per il festival. Allineate vicino a una parete, visibili ma non prepotenti e incredibilmente vibranti, piene di capacità di raccogliere il suono, “empatiche” al rumore come presenze antiche. La loro nascita, databile al 1968, ha tutto il carattere di una scoperta e il profumo di una storia quotidiana, come lo stesso Pistoletto la descrive.

Michelangelo Pistoletto e Maria Pioppi, 1968

          Le prime “trombe” del giudizio erano vecchi megafoni trovati in un mercatino delle pulci a Biella, città natale dell’ artista. La funzione che questi megafoni precedentemente avevano ha dell’interessante; erano infatti utilizzati in epoca fascista per trasmettere dai balconi municipali delle piazze italiane la parola di Mussolini, un imprinting sonoro sicuramente non trascurabile nell’infanzia dell’artista, che tuttavia Pistoletto ha saputo trasformare nel suo ruolo vocale. Le Trombe del Giudizio in alluminio vedono la loro realizzazione, quindi, come postuma e in un certo senso più “maturata” nella sua risoluzione artistica visiva.

Le trombe del giudizio, performance

          Il 14 ottobre si è svolta quindi la performance dell’artista, che si è avvalso del sapiente aiuto tecnico di Antonio Trimani per dirigerla. L’artista è seduto tra il pubblico, con la sua presenza forte e carismatica, caratterizzata dal riconosciuto cappello nero Borsalino. La voce registrata di Cristina Pistoletto inizia a cantare, si dissocia, è frastornata, quasi in trance, presa da un particolare, forte stato d’animo riecheggia con acuti e toni bassi, sta in silenzio, riprende più improvvisamente. L’entrata solenne e cadenzata dei tre performer (Leonardo Fioraso, Giulio Polloniato e Serafino Monaco) reggenti le trombe segna un momento in avvicinamento anche se nessuno degli spettatori è consapevole di che tipo di momento si tratta.

Da sinistra, Antonio Trimani, Serafino Monaco, Michelangelo Pistoletto, Giulio Pollionato, Leonardo Fioraso (foto di Marco Trentin)

          Dopo averle appoggiate a terra il gesto dell’urlo per suonarle è forte e pieno di presa di posizione. Il loro suono è inesorabile. Ciò che è avvenuto è inesorabile, nel Suono e nel Tempo, nello Spazio, in colui che ascolta si apre un particolare sentimento, comune a tutti, ovvero la sensazione di doversi accorgere prima di ciò che c’era, ma che in qualche modo non si è riusciti a realizzare e, ora che le Trombe del Giudizio gridano di un suono viscerale e totale se ne accorge, ed è troppo tardi. Qualcosa sta avvenendo e l’uomo sa che non può scappare, che il giudizio sta facendo cantare la sua voce e non gli rimane che sentire il Suono e il suo stato d’animo. La Voce delle trombe si fonde alla voce femminile che continua il suo canto; avvolte assieme e tuttavia sempre dissociate, proseguono entrambe come su binari paralleli senza toccarsi, ma in grado di creare insieme il momento, ovvero quel connubio sonoro in cui l’uno non può essere senza l’altro. Questo canto di donna sembra quasi una voce di “Cassandra”, la profetessa punita con l’“inascolto”, che sta annunciando il suo oracolo e che tuttavia, come lei ben sa e come gli spettatori ben sanno, non sarà ascoltato. Un evento che allude al Giudizio Universale che deciderà le sorti dell’intera umanità, ma forse anche che rievoca l’annuncio dell’entrata nel secondo conflitto mondiale, a voler ricordare l’imprinting della voce del Dux che risuonava all’interno dei primi megafoni, come prima citato.

Michelangelo Pistoletto con (a destra) Nicola Cisternino, Giovanni Iovane e Roberto Favaro, (a sinistra) Antonio Trimani

          Ancora un’ulteriore riflessione sorge: le Voci delle trombe che voci sono? Sono a tutti gli effetti il suono del “dio Giudizio” volto a prendere completamente la psiche dell’ascoltatore e allo stesso tempo paiono quasi essere il suono dello sgomento umano o forse sono entrambi, che diventano un Suono unico e potente. Il Giudizio, che è deificato, come detto poco fa, ma che può anche essere sentito nella sua forma più umana, ossia come il passaggio dell’uomo verso l’età più adulta a cui è chiamato e che non può fermare, la maturità, come lo stesso artista afferma. Ancora, si potrebbe allargare questo concetto e intendere il giudizio come quella forza dal carattere talvolta ossessivo che in tutta la tua potenza psichica diventa il “grande inquisitore” che con impeto fa tuonare la sua voce e si rende presente. Con questa presenza anche il Violino di Jannis Kounellis adagiato e imprigionato nella sua bara di ferro e le Pietre Sonore di Pinuccio Sciola, dai tagli geometrici e puri, con propri e unici caratteri, si può immaginare che abbiano ora un’impronta del passaggio degli strumenti del Giudizio di Michelangelo Pistoletto; forse ne sono stati i primi spettatori conservando di questo evento il riverbero, insieme ad altrettante risonanze raccolte nel loro sacrale silenzio. Così come le persone che divengono “strumenti suonati dal suono”, così gli altri due strumenti, anch’essi suonati, scelgono di essere persone, mute o in canto.

 

Omaggio a Pinuccio Sciola

«Una volta un bambino mi ha chiesto che cosa poteva nascere da un seme di pietra. Io non ho neppure fatto in tempo a cogliere la domanda che una coetanea prontamente gli rispondeva che da un seme di pietra può nascere una montagna. Meraviglioso, non è vero?» (Pinuccio Sciola)

«Come ti ho detto, lavoravo le pietre che trovavo qui vicino, ognuna era diversa dall’altra e pertanto, mentre la scolpivo, ognuna produceva un suono differente. Non ci avevo mai fatto caso, fino a quel momento era un fatto naturale. Non ricordo in che anno, nel mio laboratorio è venuto a trovarmi il musicista, mio amico e conterraneo Enzo Favata: voleva registrarmi mentre scolpivo e per me era naturale fargli notare il suono delle varie pietre. Ogni suono aveva delle caratteristiche precise e poteva essere modulato in maniera diversa. Insomma, quello che avevo sempre considerato il rumore dello scalpello che batteva la pietra, era la voce della pietra ferita, il suo lamento. Adesso che l’avevo sentita, dovevo tirarla fuori, farla ascoltare anche agli altri. Così ho iniziato a fare i primi esperimenti e a notare, per esempio, che praticando una serie di tagli con dischi affilatissimi sulla pietra, questi producevano suoni, differenti a seconda dell’ampiezza e dello spessore dei tagli, anche sfiorandoli solo con le dita. [ …] Non è vero che non esisteva, è più giusto dire che nessuno lo aveva mai ascoltato. La pietra, da sempre, in tutti i popoli, è sempre stata la muta sentinella del tempo. Le sonorità della pietra sono state apprezzate in molte culture: dai giapponesi e dai cinesi ad esempio. Si è sempre trattato però di suoni di tipo percussivo. Il suono delle pietre sonore è altra cosa. Io ormai riesco a sentirlo prima ancora di ricavarlo attraverso la lavorazione. Quando cerco le pietre: questo è il momento più importante perché a seconda della forma e della qualità intuisco quale sarà il suono. Lo sento persino prima di toccare la pietra e questa è un’emozione straordinaria. È difficile spiegarla, è un momento del mio speciale rapporto con la pietra, un rapporto intimo. Un rapporto silenzioso, fino a quando non viene fuori questo sussurro, questo rantolo. [… ] Non è azzardato dire, tuttavia, che la scoperta delle pietre sonore apre nuovi orizzonti di significato sul rapporto tra l’uomo e la materia. La pietra non è più soltanto la spina dorsale del mondo, come dicevano gli Incas, è la memoria dell’Universo, è vitalità pulsante che condiziona il nostro quotidiano: i microchip dei nostri computer sono silici che ci permettono di rompere i confini geografici e di entrare in ogni momento, e da qualunque luogo, in contatto con persone che non consociamo, lontane mille miglia da noi. […] È una domanda che mi fanno spesso. Una volta ho risposto che “Se uno pensa ad una pietra pensa alla Sardegna, perché se non la trova qui vuol dire che quando Dio ha creato il mondo se l’è tenuta in tasca” » (Pinuccio Sciola)

 

Ascoltando la pietra, omaggio a
Pinuccio Sciola

Concerto per pietre sonore, fiati, percussioni ed elettronica

di Giada Viscuso

 


Corro lungo le increspature della superficie.
Uno strato umido avvolge la mia interminabile carezza.
Sono in perenne movimento, mi contorco, mi incastro, mi annodo, mi allungo, mi fletto, stringo, sorreggo, dissimulo.
Sono in grado di fare tutto questo e molto di più, ma quando mi estendo, mi apro, divenendo l’emblema del mio stesso agire.
Indago la profondità dello spazio con il quale creo il contatto in un tracciato serpeggiante, impregnando ogni minima intersezione di quel principio organico che mi spinge ad agire.
Sono il mezzo attraverso cui animare l’inanimato.
Sono una mano.
Sono la mano di Pinuccio Sciola, e sto accarezzando la superficie della pietra, muovendomi per estrofletterne il primordio sussurro sonoro.
Il sussurro della pietra. Il sussurro di un tempo a noi inconcepibilmente lontanissimo, anteriore perfino alla luce.
In quel momento in cui l’universo così come lo si conosce non esisteva, se non come potenza, la pietra galleggiava già nell’eterno.
Oggi potrei essere la tua, di mano, a modulare questo dialogo millenario con l’origine, un segreto alla portata di chiunque si apporci a questa materia con curiosità e profonda umiltà.

Pinuccio Sciola suona una sua scultura a San Sperate

          In occasione di Sound&Art, il progetto promosso e coordinato dall’Accademia di Belle Arti di Brera e coprodotto con l’Accademia di Belle Arti di Venezia ed il Conservatorio di Musica “Benedetto Marcello” di Venezia, con la partecipazione dell’Accademia di Firenze, viene posto al centro del mirino l’inesplicabile dilemma della dualità che da sempre persiste tra un oggetto considerato d’arte, dal momento in cui volge all’intenzionalità del produrre il suono.
          Con quale termine ci si può rivolgere riferendosi ad un oggetto d’arte quale può essere una scultura, un oggetto architettonico, o plastico, dal momento in cui svela la sua duplice fruibilità?
        La collaborazione tra Accademie e Conservatori ha lo scopo di innescare in questo scenario, ancora oggi dibattuto ed infuocato, la questione del reciproco e fertile rifrangersi vicendevolmente tra l’oggetto plastico-scultoreo che si fa strumento, e lo strumento che si fa scultura.
          Venerdì diciotto ottobre l’ultimo appuntamento del progetto, con il concerto Dall’Arte del Suono al Suono dell’Arte, omaggio a Pinuccio Sciola ed alle sue pietre sonore, a cura di Icarus Ensemble.
          Nel ricco panorama delle sperimentazioni che hanno riguardato la produzione delle sculture sonore, il lavoro di Sciola si configura come dilatazione spaziale dell’arte plastica nella dimensione musicale, divenendo scoperta della sua anima sonora. Questa risonanza accompagna il suo viaggio attraverso una memoria che prescinde dalla pietra per attingere dalla nostra collettività il ricordo di un tempo primordiale di cui rimane oggi lieve la traccia.
        Pinuccio Sciola ha iniziato molto presto ad intessere il suo dialogo personale con la pietra, fin dagli esordi del suo percorso artistico di ricerca nei primi anni Cinquanta, configurandosi come esemplare indagine sul rapporto tra forma e suono. La sua attenzione pone l’accento sull’esistenza fisica della pietra quale materia ricca di rievocazioni ancestrali e vocazioni identitarie.
          La natura delle scelte espressive che hanno determinato il forgiarsi del suo linguaggio è da ricondurre alle esperienze vissute dall’artista durante i numerosi viaggi intrapresi lungo il percorso formativo.

Il Giardino Sonoro, San  Sperate (Cagliari) – foto di Max Solinas (L’Unione Sarda)


          Dalla natia comunità agricola a San Sperate nel sud della Sardegna, luogo in cui Sciola venne alla luce il 15 marzo 1942, il suo percorso artistico ebbe inizio con la vincita di una borsa di studio che nel 1959 gli permise di frequentare il Liceo Artistico di Cagliari.
          La Sardegna è una terra emersa, magica, la culla dell’uomo primitivo che riversando i propri caratteri simbolici nella pietra, instaura con quest’ultima un legame divino, propiziatorio, caratteristico soprattutto dell’epoca del megalitismo e dell’epoca nuragica e pre-nuragica della storia sarda.
          Pinuccio Sciola avverte sempre una stretta correlazione tra le espressioni arcaiche tipiche della Sardegna ed il proprio linguaggio in ambito artistico, un’intuizione che maturerà negli anni a venire anche di conseguenza al soggiorno in terre messicane.
          Durante quest’ultimo appurò le innumerevoli analogie che coniugano molti dei caratteri della Sardegna megalitica alle architetture proprie delle culture precolombiane.
          Avendo lavorato come contadino insieme alla sua famiglia fino all’età di diciotto anni, instaura con la Madre Terra un rapporto di autentica corrispondenza fin dalla più tenera età, scoprendo e rivelando alcune delle caratteristiche tipiche del primitivismo, confluenti in una consolidata poetica dell’autodidattismo ed auto-riconoscimento.
          A questo proposito è curioso scoprire come nonostante il giovane Sciola fosse spesso in cammino per l’Europa alla ricerca di nuove scuole e di maestri, prima ancora di giungere a conclusione degli anni del Liceo Artistico, attraversando i luoghi più rilevanti del panorama delle avanguardie funzionalistiche (Olanda, Germania, Lussemburgo) non restò in alcun modo scalfito dalle cospicue eredità formali del Bauhaus e del neoplasticismo De Stijl, rimanendo significativamente indifferente.
          Sciola si spostò a Firenze dove frequentò l’Istituto d’Arte a Porta Romana.
All’Accademia Internazionale di Salisburgo ha seguito i corsi di scultura venendo a contatto con importanti influenze del periodo quali tra queste Minguzzi, Kokoschka, Vedova e Marcuse.

Grotta di Altamira, Spagna – Arte rupestre

          Ma come è possibile che un ragazzo così giovane, con l’obiettivo di inserirsi nel mondo dell’arte, non possa in alcun modo essere condizionato dalle particolari correnti psichiche che aleggiavano in quello stesso periodo in cui tentava di individuare e delineare un proprio codice, un proprio timbro plastico?
          Il motivo affonda sicuramente le radici da una presa di consapevolezza, un’improvvisa illuminazione nella mente di Sciola avvenuta all’interno della grotta di Altamira, dal carattere estremamente forgiante.
          La grotta di Altamira si trova nella regione di Cantabria, località nel nord della Spagna, ed è uno tra i più mirabili siti in cui graffiti e pitture rupestri si sono straordinariamente conservati.
          Tuttavia quello che colpì il maestro della pietra non fu tanto l’abilità tecnica con cui gli antichi avevano svolto quelle figurazioni, quanto piuttosto come queste figurazioni fossero state riprodotte aderendo perfettamente alla caratteristica conformazione strutturale della parete rocciosa stessa, per simulare ed attribuire l’effetto di tridimensionalità ai soggetti riprodotti.
          In questa occasione Sciola vede la pietra più che un utensile o strumento di oggettivazione, l’essere il contenuto stesso di un’oggettivazione. Dunque più che la forma di quella testimonianza, a Pinuccio Sciola interessa la condizione della sua possibile fruibilità.
          Pinuccio Sciola venne ispirato da una domanda semplice e genuina, si chiese infatti se la pietra dal momento in cui conserva una memoria, non potesse per questo motivo produrre anche un suono.
          Nell’arco di quarant’anni le opere di Sciola sono state esposte o collocate presso prestigiosi spazi espositivi in tutto il mondo: ma è a partire dal 1966 che la sua ricerca artistica apre, per il mondo dell’arte, uno scenario nuovo e inaspettato.
          Questo avvenne quando il Maestro svelò al mondo la magia del suono della pietra, una materia fino a quel momento considerata dura e statica, morta, finalmente non più rilegata ad una sola funzionalità visiva e tattile, ma alla quale ha permesso di essere osservata attraverso un terzo senso: l’udito.
          Le pietre sonore vengono presentate per la prima volta in occasione del Festival Time in Jazz di Berchidda in Sardegna e suonate dal percussionista Pierre Favre. Opere capaci di vibrare mostrandosi in tutta la loro elasticità sia fisica che acustica, di emettere suoni, di comunicare allo spettatore il potere della natura e la forza della terra.

Festival Time in Jazz, Berchidda, 1996 – Pinuccio Sciola (a sinistra) con il percussionista Pierre Favre – © Fondazione Pinuccio Sciola

          I suoni che producono le pietre sono suoni inediti, strutturati e complessi, che descrivono la dimensione vitale della pietra. Sono suoni lontani dalle rigidità delle partiture scritte e predeterminate, con differenti qualità secondo la densità della pietra e la modalità in cui è stata inferta l’incisione.
          Il connubio che imprescindibilmente lega la dimensione del suono a quella della scultura ha avuto inizio dal momento in cui le incisioni hanno iniziato ad insinuarsi nella pietra con l’intenzione di ricavarne melodiose sonorità.
          Le vibrazioni ottenute dall’azione della mano o di un frammento di pietra sono di tutte le altezze e profondità e variano in virtù del materiale utilizzato, in base allo spessore, alla grandezza e alla forma dei tagli che hanno un ruolo fondamentale nella generazione dell’onda sonora; inoltre, il timbro dipende anche dal tipo di sollecitudine che viene esercitata per ottenere la produzione musicale.
          Le prime rivelazioni sono avvenute con i basalti, rocce di natura vulcanica dalle quali possono scaturire suoni profondi, viscerali, che sembrano giungere dal centro della terra e dallo spazio siderale.

© Fondazione Pinuccio Sciola

          Alla fine degli anni Novanta è avvenuta da parte dell’artista la scoperta della pietra calcarea, una sorpresa ancora più inaspettata, a causa della straordinaria proprietà di trasmissione del suono caratteristica di questa pietra. Una roccia ricca di resti fossilizzati, dotata di grande risonanza ed elasticità dalla quale scaturisce una ricca produzione di suoni prevalentemente liquidi, che sembrano raccontare della lunga vita della pietra nell’ambito marino. Sciola vi opera dentro come un chirurgo, avvalendosi dello scalpello e di tecniche di incisione sperimentale, ricavandone sottili lamelle o più significative porzioni di basalto, tutto ragionato e scolpito per tradursi in suoni: e cioè le trasforma in oggetti di suono. Vi è il pensiero di una violenza che rimanda alla natura, nella prassi entro cui si dibatte il suo fare artistico nel misurarsi con una materia avvertita quasi come essere organico e vivente.
          L’arte musicale permette all’uomo di superare l’angoscia di fronte alla irreversibilità e alla ineluttabilità dell’invecchiamento e della morte, sostituendo al tempo reale, uno spazio chiuso, in cui si profila il sogno di un’esistenza sempre nuova e indefinitamente incompiuta. Il suono, la musica, per poter essere, si legano imprescindibilmente allo spazio come condizione essenziale di esistenza, uno spazio che sarà evidentemente reso dinamico e instabile nella sua condizione acustica e perciò anche temporale, proprio dalla comparsa e dalla scomparsa del suono. Forma e suono divengono espressioni che fluiscono reciprocamente congiungendosi in un medesimo orizzonte mitico e sacrale.

Un giovane Pinuccio Sciola nel suo studio d’artista – © Fondazione Pinuccio Sciola

          Prima di dedicarsi alle pietre sonore, Sciola ha attraversato un significativo periodo in cui era dedito al figurativo, una breve ma intensa stagione, intrisa anch’essa di arcaicismo, risalente agli anni Settanta di cui egli stesso rivela: “Ogni ricerca formale rischia di essere inutile astrazione quando prescinde dalla materia. Il figurativo è in realtà più astratto della stessa astrazione. Voglio dire che, rispetto alla materia, la figurazione è più violenta, più autonomizzata. Non si tratta quasi mai di procedere solo figurativamente o solo astrattamente: si tratta sempre, invece, di realizzare un’interazione attiva con la materia e di rispettarne le qualità specifiche”.
          Alcune domande sorgono allora spontanee: è possibile considerare una materia libera dalle “costrizioni” autonomizzate che gli vengono imposte dalla forma? Come si inserisce l’uomo nel suo fare artistico, dovendo avere a che fare con una materia che ha già avuto una sua origine e trasfigurazione in natura?
          Non è cosa da poco notare come in tutta la produzione scioliana, compresa anche quella giovanile, sia pressoché assente una figurazione levigata e “finita”, anche quando Sciola si intrattiene intorno alla figura, alla forma figurativa, la atteggia secondo un attenzione che sembra privilegiare costantemente la materia che la sostiene e la fa essere.
          In sostanza Sciola ha sempre avvertito la costrizione che la forma esercita sulla materia e dopo lunghe mediazioni che erano volte a stemperare e ridurre le ragioni della differenza tra l’una e l’altra, si è dedicato in maniera esclusiva ad una plastica che riammettesse un valore della materia non più vincolato alle condizioni che la forma imponeva.
          Metaforicamente parlando, il tempo entro cui si svolge una performance musicale, ovvero un processo organizzato, con una propria metrica, mutevole, fino a quando non torna poi ad inabissarsi nel silenzio della sua inesistenza, può essere rielaborato nell’immagine di un’isola.
          L’isola è uno spazio fisico, di tempo, che si fa sonoro. Se la pietra di Pinuccio Sciola rappresenta un vero e proprio spazio musicale, dunque metaforicamente un’isola, poco importa che questo spazio sia considerato architettonico, plastico, scultoreo, o musicale, ciò che conta è che l’oggetto si dispiega ad un’intenzionalità sonora. In tal caso non si tratta più di “liberazione” del suono quanto invece dell’emersione di una musica preesistente, udibile grazie all’azione di volontà, intuizione, ed in-formazione della materia.
          È molto evidente nell’ultimo Sciola il gioco alterno tra una forma che porta la materia a rigori geometrici ed una materia che al contrario assorbe e fa scomparire le tracce dello scalpello. Si tratta di un confronto che avrebbe la funzione di verificare se dal punto di vista della materia il suo produrre sia effettivamente un produrre o piuttosto un sovrapporre.

Pinuccio Sciola (1942-2016) – Giardino sonoro, San Sperate (fonte: www.psmuseum.it)

          Da questo presupposto l’idea di sviluppare il tema della serata, dedicata a Pinuccio Sciola, scomparso nel 2016, e del quale il suo incessante e ricco lavoro continua ad esistere presso la sua abitazione, studio artistico, e Giardino Sonoro presso San Sperate grazie all’impegno dei suoi tre figli, che tramite la Fondazione Sciola si dedicano a portare avanti la sua filosofia di vita e quella che fu una ricerca artistica di mirabile spessore, in continua evoluzione.
          Le performances che si svolgono intorno alle pietre sonore, animate da tre esecutori, condividono la compresenza di suoni emessi da risonanze di flauto, clarinetto e sintesi elettroacustiche.
          Le composizioni realizzate per l’occasione di SOUND&ART curate nella regia del suono da Paolo Zavagna e interpretate dai musicisti dell’Icarus Ensemble di Reggio Emilia, sono quelle di alcuni tra i più rilevanti compositori sardi della scena contemporanea. Da Antonio Doro (Postludium a “Contra Guerra Sonos”, per percussioni intorno a pietre sonore di Sciola, flauto, clarinetto in sib, sintesi elettroacustica e suoni concreti su voce-testimonianza di Luigi Pestalozza) a Fabrizio Casti (Resonances, per flauto, suoni elettronici e pietre sonore ad libitum) a Marcello Pusceddu (Pin, per flauto in sol, clarinetto in sib e pietre sonore) affiancate a due composizioni di Giorgio Nottoli Ordito polifonico (2011), acusmatico per suoni di sintesi e Trama lucente II (2017) per flauto e suoni elettronici. Tutte composizioni in cui gli autori si impegnano nel rimarcare forti limiti di discontinuità temporale e bassa correlazione lineare delle catene di suono nella loro distribuzione spaziale. Le pietre sono pizzicate, percosse, amorevolmente accarezzate, con le mani o con l’arco di violino.

Icarus ensemble

          La pietra “si fa velo”, diviene disposta a farsi guardare attraverso, e diviene addirittura un proiettore di mondi alternativi.
          Lo scivolare del suono verso zone quasi impercettibili restituisce l’immagine di una superficie sonora resa talmente sottile da mostrare un al di là che può essere tante cose, per esempio il vuoto, il niente puro e semplice, come nel brano di Antonio Doro, Contra Guerra Sonos, durante la quale emerge la voce-testimonianza del musicologo e intellettuale Luigi Pestalozza, contro ogni forma di guerra.
          Si pensi alla pietra sonora come un oggetto che se assiduamente contemplato può schiudere la via per intraprendere su di esse viaggi soprannaturali. In Ordito polifonico, Giorgio Nottoli elabora una fascia sonora molto complessa, costituita da impulsi timbrici diversi. Come un tessuto si avviluppa onoramente sulle pietre da ogni parte, conformandosi alle sinuose ed elastiche incisioni, attuando una costante repentina deviazione della propria armonia interna. L’intero brano è stato realizzato mediante uno strumento virtuale, producendo un adattamento particolare sulla naturale e concreta compostezza ed integrità della materia pietrosa.
          Con Trama lucente, Giorgio Nottoli affida questo “ordito elettronico” alla luminosa guida del flauto. Un elemento, il flauto, che guida ed emerge in relazione ad uno sfondo dal timbro caratterizzato da un dinamico fermento metamorfico.
          Trovare o sovrapporre? Nel primo caso, alla monumentalità a cui Pinuccio Sciola indulge nella sua produzione, “trovare” si traduce nell’estroflettere in superficie l’eidos segreto della pietra. Nel secondo caso la pura materia passa quasi senza alterazioni dal suo contesto originario ad un contesto estetico intenzionale alla sua fruizione.
          In entrambi i lavori di Nottoli, così come in Resonance di Fabrizio Casti, l’integrazione tra strumento e suoni elettronici riguarda in primo luogo la relazione della figura/sfondo. Sovrapporre quindi la figura allo sfondo, o trovare la figura all’interno dello sfondo stesso? Resonance è un progetto che indaga la dicotomia tra astratto (strumenti acustici, interpreti, compositore, partitura) e concreto (tecnologie di registrazione, riproduzione, manipolazione e montaggio del suono su supporto), all’interno del tentativo di realizzare un’opera in grado di contemplare la loro paritaria coesistenza.
          Marcello Pusceddu, con Pin, indaga la materia della pietra nel suo apparentemente contrapposto aspetto di luminosità, avvalendosi di flauto in sol e clarinetto in sib, per rendere la materia delle pietre sonore scissa, ma allo stesso tempo coesistente nella sua origine.
          Ottenere questo risultato è possibile solo attraverso una profonda contemplazione organica.
          Nell’in-formazione insita nell’azione creativa, la scissione e la conseguente trasfigurazione dell’elemento materico è possibile e soprattutto giustificato poiché a monte vi è una profonda contemplazione individuale, un “codice segreto” che ne determina una microstruttura compatta.
          Escogitare nuovi metodi attraverso cui in-formare la materia non esclude quindi la possibilità di poter approdare a delle soluzioni formali inscrivibili nel raggio di un risultato qualitativamente mirato.
          La Qualità che può avere una pietra, è “una cosa che si vede con la coda dell’occhio”, in quanto profilo fortuito di quella scrittura nel quale si è inscritti e nel quale si può inscrivere qualsiasi forma dell’indistinguibile linguaggio della Natura.

Dal violino storico al violino di Kounellis

          In apertura della serata, dedicata alle pietre sonore di Pinuccio Sciola, c’è stato un rinnovato omaggio al violino di Kounellis, con il concerto per violino solo di un prestigioso interprete: Paolo Ghidoni.
          Il piccolo Paolo mise il violino sotto il mento per la prima volta all’età di otto anni, gli bastarono un paio d’anni per legarsi imprescindibilmente a quei suoni vibranti, rimanendone assuefatto. L’inizio di una lunga e ricca carriera, che portò Ghidoni ad esibirsi più di un migliaio di volte in concerti da solista, in trio, e come primo violino in orchestra.
          In programma alcune pagine storiche della letteratura per violino solo, dalla Suite n.1di Ernest Bloch, ai Capricci n. 1,5,7 di Niccolò Paganini, alla Sonata n. 3 “ballade” di Eugène Ysaÿe, affiancate da alcune pagine di  due noti autori italiani contemporanei, Gabriele Manca (1957) e Alessandro Solbiati (1956).

Paolo Ghidoni

          «Viviamo, volenti o nolenti, in una “civiltà del rumore”», esordisce Gabriele Manca. Ovviamente, una certa quantità di rumore, di scoria in eccesso, è tipica di qualunque comunicazione, anche sana. La moltiplicazione inarrestabile degli oggetti, delle informazioni, delle sollecitazioni sensoriali – visive, auditive, tattili – ci fa parlare di Horror Pleni. Nella civiltà del brusio incessante, non ci resta che alzare la voce denuncia il compositore; i Capricci n. 1,5 e 7 per violino solo, efficacemente alternati a specchio da Ghidoni con i Capricci paganiniani, sono risultati come una spietata macchina per sopprimere quell’assordante brusio, come lo stesso compositore scrive nelle note di presentazione dei brani.
        Alessandro Solbiati nel 2003 ha composto un brano per violino solo intitolato Due Adagi: Tiresia e la Pizia ispirati al racconto di Dürrenmatt La morte della Pizia. Il brano trae spunto dalla storia di due indovini fondamentalmente opposti, Tiresia e Pizia. Tiresia lucido, controllato e freddo. La Pizia sogna, è fantasiosa, emotiva. I due Adagi si fronteggiano, discendente dall’estremo acuto alla quarta corda vuota il primo, melodico, dolce e ascendente il secondo. Questo forte contrasto è messo in evidenza da due movimenti assai contrapposti ai due Adagi, il primo volatile, leggero, vede una scala veloce e impalpabile come un velo. Slegandosi nel tempo incontra nel suo percorso quattro episodi differenti ma accomunati dalla dinamica che non supera la dinamica del piano. Mentre il secondo è incalzante ed aspro, ostinatamente ff, con una durezza e cattiveria forse mai raggiunta in nessun altro dei suoi lavori.

__________________________________

 

Foto di copertina
Concerto omaggio a Pinuccio Sciola – Icarus Ensemble

Credits
Si ringraziano: la Fondazione Pinuccio Sciola, Zerynthia Associazione per l’Arte Contemporanea, Barbara Nardacchione e Marco Trentin

© finnegans. Tutti i diritti riservati