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WOODS – strategie del depistaggio -, di Giovanni Di Vincenzo
Come si fa, nel 2000 e (parecchio) rotti, a suonare come i CSN, i Byrds e i Doors senza apparire gli ultimi, patetici paladini di una (sia pur gloriosa) tradizione che annovera una ormai processionale sequela di stucchevoli epigoni? Magari bisogna giocare di sponda, confondere le acque, coltivare una “misurata irrequietezza” e, insomma, fare un po’ come fanno i newyorkesi Woods.
Solo una dozzina d’anni fa, per dire, si affacciavano sul mercato discografico con un gracchiante esordio freak-folk grossolanamente autoprodotto: svagati bozzetti d’indolenza lisergica drappeggiati da dodici corde sommariamente accordate su stonato hipster catatonico, tra rumorini e interferenze di eterogenea natura “ambientale” a certificare la ruspante immediatezza della instant take e quel tanto di percussioni giocattolo buttate lì un po’ a casaccio, che Moe Tucker in confronto sembra Keith Moon. Però facevano sul serio, e giĂ molto meglio, solo un paio di anni piĂą tardi, quando At Rear House (2007), pur senza abdicare all’ortodossia lo-fi, bonificava la proposta da sporcizie assortite e cazzeggio freak, recuperando innanzitutto una scrittura pop piĂą robusta e piĂą lineare. In At Echo Deck (2010) e nel successivo Sun and Shade (2011), poi, hanno ripulito ulteriormente il sound e levigato la struttura dei brani per ormeggiare ad un porto sicuro, quello del folk rock westcoastiano, fase di cui i successivi Bend Beyond (2012) e With Light and With Love (2014) sono l’ultima formidabile sintesi.
Come tanti altri collettivi germogliati nel sottobosco della bassa (talora infima) fedeltĂ , anche i Woods hanno intrapreso il proprio viaggio di formazione sotto l’egida di un progressivo recupero delle radici, di una graduale “normalizzazione”, dove la maturitĂ espressiva collima inesorabilmente con il docile riflusso nel solco, ampio e accogliente, tracciato dal grande cantautorato nordamericano. E pur tuttavia compiono un piccolo miracolo perchĂ©, nel momento stesso in cui riconoscono una discendenza, consolidano un’identitĂ stilistica precisa e meno derivativa di quanto possa apparire in prima battuta, e questo proprio in virtĂą di una eterogeneitĂ di riferimenti stilistici davvero vasta e ambiziosa, capace com’è di spaziare con estrema disinvoltura dai piĂą bucolici acquerelli di folk-rock pastorale, impreziositi da deliziose armonizzazioni vocali, alle piĂą destrutturate reminiscenze di acid-free-folk, che deragliano i brani lungo imprevedibili fughe strumentali psichedeliche. Neil Young e Flaming Lips, Beach Boys e Violent Femmes, Byrds e No Neck Blues Band: il campo d’azione dei Woods si espande sempre e comunque, incorporando e riverberando sempre piĂą cose. Che, e qui sta il prodigio, non somigliano mai a posticci e ridondanti ammiccamenti buoni solo a movimentare il canovaccio; ma appaiono perfettamente integrati alla coerenza di un discorso espressivo che fluisce compatto, armonioso, naturale.
E ancora nulla, tuttavia, lasciava presagire l’ultima, vertiginosa ed esponenziale metamorfosi attuata con City Sun Eater In The River Of Light (2016), ad oggi l’ultimo tassello di una discografia giĂ piuttosto generosa, che arricchisce la loro tavolozza cromatica di ulteriori sfumature consacrandoli come una delle realtĂ piĂą interessanti dell’odierna scena alternative rock. Dove la quadratura del cerchio sembra essere la provvidenziale contaminazione con certe sonoritĂ funky-soul, talvolta insaporite di jazz o di un tocco quasi reggae, con l’approdo ad un suono ancora piĂą rotondo, piĂą prodotto, (ri)strutturato in forma canzone definitiva attraverso provvidenziali iniezioni ritmiche e lussureggianti intuizioni in sede di arrangiamento. Ennesimo scarto di una vivacitĂ creativa stupefacente, che si attende al varco di nuove, mirabolanti sorprese alla vigilia dell’imminente Love Is Love, la pubblicazione del quale è prevista per maggio. Chi vorrĂ , potrĂ pregustarne il valore dal vivo in occasione delle quattro date del loro minitour italiano: il 31 marzo allo Spazio 211 di Torino, il 1 aprile al Monk di Roma, il 2 aprile al Bronson di Ravenna e il 4 aprile al Serraglio di Milano.
Giovanni Di Vincenzo
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