RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

IRMA PINEDA L’aria che passa invisibile

[Tempo di Lettura: 8 minuti]

IRMA PINEDA
L’aria che passa invisibile

Versioni di Stefano Strazzabosco

 

Qual è la misura precisa
in cui può dividersi il cuore di un uomo
senza spaccarsi
come il guscio di un uovo nel fuoco?
Ti ripeti ogni notte
con la tua giovane voce di ramo verde
che ferisce la corteccia del vecchio salice
Chi può ridarti le parole
se migliaia di impronte
si affacciano sul sentiero
senza restituirci un solo gemito in risposta

*

Chi siamo noi adesso?
Se il luccichio dei fili che ci hanno vestiti di colori
si è coperto di fango
per nasconderci allo sguardo dell’odio
e al veleno che sputi
a chi pensi di far male col tuo fiato di fuoco?
Puoi far sì che il mio corpo cada
Io cadrò
ma ti dico una cosa
Qualcun altro si alzerà ad affrontarti

*

Questo è il tempo di morire
la luce mi scorre tra le dita
non distinguo più il giorno dalla notte
perché il tepore del ricordo mi addolcisce l’anima
Puoi incidere nel tronco l’ora in cui morirò?
Quando il mio spirito si alzerà
ritornerà a quest’albero
per guardare le impronte delle tue dita
e chiedere che ti perdonino
per tutto il male che ci hai seminato

*

Frugo nel tuo sguardo per trovarci la tenerezza di una volta
ma il tuo volto è una maschera di dura terracotta
Non posso vedere i tuoi occhi
ti dico
e non ti importa
perché non ascolti altra voce che quella
che ti ha insegnato a guadagnarti il tuo pane quotidiano

*

Smetti di seguire i miei passi
come un animale furioso
Smetti di annusare le piste che portano alle nostre case
come un cane da caccia
Non siamo conigli
iguane
cervi
Noi siamo il tuo specchio
Guàrdati in noi
e saprai che non siamo tuoi nemici

*

Salvati finché puoi madre
che la memoria quando duole uccide
Fuggi lontano senza altro peso
che il tenero sguardo dei tuoi uomini
sepolti sotto il guanacaste1
E quando arrivi costruisci un altare
in cui pregare per i tuoi morti nella distanza
poi avrai tempo di raccogliere i tuoi passi
di ricordarli con ululati
che spaventeranno i coyote sotto la luna piena
Ma adesso vattene
che gli uomini verdi ti stanno cercando

1 guanacaste: albero sempreverde diffuso dal Messico al Venezuela, di grandi dimensioni e dalla chioma arrotondata. Può superare il metro di diametro e raggiungere i 60 anni d’età.

*

Noi siamo la vita
non siamo la storia che rinasce
anche se tu hai cercato
di cancellare
il colore della mia pelle dalle mani del mondo
Noi siamo qui, presenti
nei sogni degli uccelli e dei fiori
noi siamo fuoco e sole
luce e tepore
che illumina i sentieri di stupore
Luce e tepore
che tocca i corpi nelle notti d’amore
quando una donna e un uomo sono uno
per continuare la stirpe
ed essere vita, ancora

*

La pace è sempre stata una sorella
finché la cattiveria
ha sconquassato il ventre della terra
perché voleva qualcosa di più
Non le bastava la nostra presenza silenziosa in un angolo
non si accontentava del nostro muto dolore
Mille demoni acquattati
hanno tirato su i loro corpi appesantiti
per cancellare la memoria
e scrivere poi
che sulla terra noi non siamo mai esistiti

*

La paura si è insediata negli occhi dei bambini
le palpebre gravano e coprono la luce
Sono fuggiti i sorrisi
Il rumore dei rami spezzati turba il sonno
C’è più silenzio nelle case che nelle tombe
Loro vengono di notte
buttano tutto all’aria e tutto rompono
È così grande il timore che i grilli si zittiscono
e i gufi non guardano e non cantano
Noi vogliamo essere l’aria
che passa invisibile

*

Quando il mondo spiegò la sua veste notturna
il suo manto stellato
quello che guardavamo
come lucciole appese al frondoso tamarindo
arrivarono loro
con quelle braccia di metallo e di fuoco
incendiarono la notte
svegliarono la terra coi loro urli ferini
e coi gemiti d’animale ferito
che uscivano
dal naso e dalla gola dei miei fratelli

*

Non fanno male le ferite
come il silenzio
di chi sta a guardare mentre ci aprono la pelle
ascolta rassegnato ossa che si spezzano
e per dire che questo gli importa
pulisce il sangue versato
per non sporcare l’alba

*

Svegliati, padre
corri lontano coi puledri in fuga
che il coraggio non vale la mia voglia di rivederti
non vedi che il demonio è in agguato?
non senti il suono dei suoi piedi ferrati sulle foglie morte?
Non sono tortillas quelle che ha in mano
e non porta la voce dei nonni
Ha sete, padre
vuole bere il tuo sangue

*

Non affrettare i tuoi passi, madre
anch’io voglio andare di corsa a un altro campo
voglio trovare altri cuori
e parlare senza paura
Ma non riesco camminare tanto in fretta
con l’ombra dei morti
che mi legano i piedi

*

Guarda bene, uomo mascherato da serpente
Guarda bene, soldato
conserva nella memoria le fotografie che non hai fatto
dei corpi stesi al sole
come manzi buttati sui sentieri
Sono i nostri padri
quelli che un giorno si alzeranno
dai morti
e torneranno da te
per reclamarti le braccia mutilate
le gole lacerate
le costole rotte
i cervelli spappolati
e la terra irrigata coi sogni che sognavano

*

Chi ha messo tanto odio nel tuo cuore
che non puoi più distinguere il sorriso
Chi ti ha seccato il miele degli occhi
che le tue mani hanno disimparato a accarezzare
Chi ha aperto la terra ai tuoi piedi
che ne sono sbucati quei demoni
Dimmi chi è il colpevole
del tuo dimenticare
l’amore che può scorrere
nei fiumi che si trovano
sotto la tua pelle

*

Donna terra sono
Terra aperta
Terra straziata
Terra ferita
Terra violentata
Terra che soffre per i suoi fratelli
Terra che non vuole che la ari l’odio
Terra che non vuole generare dolore
Terra che non vuole dare frutti amari
Terra che vuole seccarsi
Terra che vuole piangere
Terra che non vuole più sanguinare

*

Non siamo cenere al termine della notte
tu hai incendiato l’erba
hai bruciato le case
ma il fuoco non ha preso
il grande albero della nostra memoria

*

Questa è la guerra
ci hai detto
e hai sparato in aria
perché tutti gli uccelli se ne andassero
Questa è la guerra
ci siamo detti
e abbiamo impugnato la nostra parola

*

La guerra ci hai dichiarato
credevi che fossimo polvere sparsa
animali esausti
piccole luci all’alba
Adesso sai che siamo molti
compagni delle pietre e dei monti
conosciamo il linguaggio dei fiumi
parliamo con la sabbia in riva al mare
Adesso sai che non siamo mai soli
migliaia di occhi ci osservano dalla selva
e ci vedono danzare insieme alla morte
e ti vedono piangere tra gli alberi
perché anche tu conosci la paura

*

Non dovrò ferire il tuo corpo
perché le tue lacrime non basteranno
per ridare la vita ai nostri morti
né saranno sufficienti per cancellare
il dolore dalla nostra memoria
Soltanto lancerò le mie parole
ai quattro bracci dell’universo
perché il sole e il vento
le incidano in tutte le pietre
e non ci sia neanche un posto al mondo
dove tu possa fuggire senza ascoltare la mia voce
come una litania
dando un nome a ogni fiore che ti sei portato via

*

Lascia che io conosca la tua voce
non sono parole dolci quelle che mi aspetto
e non ti chiedo una preghiera
Voglio solo parlare con te
raccontarti le storie che tessemmo
tra le zampe degli alberi
Togliti la maschera
lascia riposare le tue armi
So bene che un giorno sei stato un tesoro
agli occhi della tua gente
So bene che c’è stato un tempo
in cui inseguivi farfalle
e cercavi di scoprire
di cosa sono fatte le ali del colibrì
Dove hai sepolto i tuoi sogni?
Dammi le mani e lascia che il cuore riposi

*

Non mi chiedere di dimenticare, padre
perché le mie ferite non si chiudono
Sul mio corpo puoi vedere i fili
con cui cerco di cucire la mia pelle aperta
Non posso fingere di non aver guardato
i fiori strappati e calpestati
Nei miei occhi vibra ancora lo sconcerto
che vedo nello sguardo dei bambini
Non smettono di risuonare nelle mie orecchie
i lamenti usciti dalle bocche delle mie sorelle
Non mi chiedere di perdonare, padre
perché le cicatrici sono memoria

*

Non è necessario dividere il cuore di un uomo
per sentirlo spezzarsi figlio mio
Non è necessario che tu lo metta vicino al falò
per vedere come appaiono le crepe
fino al momento in cui fa crac
Basta l’odio per romperlo
non è il tempo messo via
né le giovani morti
non è il dolore accumulato
né l’assenza a ucciderci
Basta soltanto un istante minuscolo
in cui il rancore sopito stira le sue braccia
sbadiglia
emette un breve gemito
e capiamo che è il cuore che si spacca
come il guscio di un uovo nel fuoco

*

Io gli ho parlato, padre
all’uomo vestito di verde
volevo dirgli che siamo uguali
figli partoriti sulla rossa terra
L’ho guardato negli occhi per cercare
qualche traccia del suo antico nome
ma lui nasconde la sua vergogna
dietro i colori che ha strappato
dalle mani del monte
Volevo raccontargli le leggende di questi posti
per scombussolargli la memoria
e spostare il macigno che c’è nel suo corpo
ma l’uomo
non mi ha voluto rispondere

*

Se l’uomo avesse schiuso il suo bozzolo
se il fiore delle sue labbra si fosse proteso
chiedendo la parola
chiamando la parola nascosta nella mia gola
io gli avrei detto:
che il cuore di una persona
può dividersi un’infinità di volte
per ripartire il suo amore
E gli avrei detto:
che pur essendo la mano dell’odio
anche lui
è mio fratello

© riproduzione riservata

 

 

Nota
di Stefano Strazzabosco

Irma Pineda è una scrittrice, poetessa, traduttrice e insegnante zapoteca originaria di Juchitán, Oaxaca (Messico). Dopo aver compiuto studi di Comunicazione, Pedagogia e Diversità Culturale, ha usufruito di residenze artistiche a Banff (Canada) e a Chicago. Ha partecipato a importanti incontri come il Festival Mundial de Poesía (Venezuela, 2009); il Festival Internacional de Poesía di Medellín (Colombia, 2001); il Congresso di Oralità e Letteratura (Siena, 2010); il Colloquio sulla Memoria Indigena dell’Università di Bologna (2011) e il Coloquio Internacional de Escritoras Indígenas (Ecuador, 2011).

Ha pubblicato le raccolte di poesia Xilase Nisadó / Nostalgias del mar (“Nostalgie del mare”, 2006); Xilase qui rié di’ sicasi rié nisa guiigu’ / La nostalgia no se marcha como el agua de los ríos (“La nostalgia non se ne va come l’acqua dei fiumi”, 2007); Doo yoo ne ga’ bia’ / De la casa del ombligo a las nueve cuartas (“Dalla casa dell’ombelico ai nove palmi”, 2008); Guie’ ni / La flor que se llevó (“Il fiore che si è portato via”, 2013). I testi che presentiamo sono tratti da quest’ultima raccolta.

La poesia di Irma Pineda non si nasconde dietro le parole; piuttosto le usa come armi e scudi contro chi devasta, scaccia, saccheggia, mutila, uccide, incendia e se ne torna impune a casa propria, sorseggiando una birra ben fredda, rispettato e protetto, perché è parte dell’Esercito. Si tratta evidentemente dell’Esercito messicano, composto di ragazzi provenienti da villaggi e luoghi marginali, “dal fondo delle campagne”, come direbbe Luzi, o dai sobborghi urbani: ragazzi quasi sempre privi di cultura cui la disciplina militare offre un senso e uno stipendio che, per quanto basso, è sempre meglio della fame. Sono questi i demoni vestiti di verde contro cui lotta verbalmente Irma Pineda: sono loro che, obbedendo a comandi superiori, conducono da anni una guerra “di bassa intensità” che forse non sarebbe esagerato definire di sterminio. Messicani che combattono contro altri messicani ritenuti di rango inferiore, senza diritti, senza difese, senza voce; sgherri del potere politico-militare che si accaniscono contro fratelli colpevoli di essere nati in un certo territorio, tra le montagne dello Stato di Oaxaca, nella selva del Chiapas, nei boschi di Guerrero o di Michoacán, nei deserti del Nord del Paese… ovunque gli interessi di un potere corrotto e colluso che pochi beneficia, e tutti gli altri pregiudica, rintracci risorse allettanti: legni pregiati, piante rare, metalli, petrolio, titanio, piantagioni… oppure lungo le rotte del traffico di droga e di migranti, piste sacre al profitto e vietate agli scrupoli dei “difensori dei diritti umani”.

Oaxada, città a sud del Messico

 

Irma Pineda scrive in una lingua originaria: non lo spagnolo, dunque, ma il diidxazá, lo zapoteco che si parla nell’Istmo di Tehuantepec e in buona parte dello Stato messicano di Oaxaca. Qui gli Zapotechi hanno lasciato imponenti resti di costruzioni, tecniche, reperti, conoscenze. Il centro politico, amministrativo e cerimoniale di Monte Albán, ad esempio, ha dominato questa zona grossomodo dal V secolo a. C. all’VIII d. C., ed è attualmente uno dei più importanti siti archeologici di tutta l’America latina. Oggi gli Zapotechi stanziati nel sud-est del Messico sono circa 800.000 (molti altri hanno dovuto emigrare). Le loro comunità sono minacciate dall’omologazione, corrose all’interno dal sincretismo, e in certi casi attaccate dai paramilitari o dall’Esercito, specie nei punti più marginali e deboli: gli stessi da cui provengono, appunto, anche i soldati di cui scrive la Pineda.

Che la memoria possa servire a riparare i torti; che possa funzionare come un balsamo a lenire le ferite più profonde, è tutto da dimostrare. Anche i sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti si dicevano che “la vendetta è il racconto”; anche loro hanno usato le parole per cercare di sopravvivere, sia durante la concentrazione, sia dopo, quelli che ne sono usciti. Tonino Guerra, nel suo campo di prigionia in Germania, recitava a memoria Dante ai suoi compagni, restituendo loro identità e speranza. Ma ricorrere alla memoria mentre è in corso un attacco, o addirittura un lento genocidio, non può certo bastare. Occorrerebbe, anche, fermarlo; denunciare i colpevoli; portarli in tribunale; condannarli. È tutto questo che oggi manca, in Messico come altrove; ed è per questo che le voci dei poeti, specie quando sono tenere e forti come quella di Irma Pineda, sono tanto più care e preziose.

VIDEO YOU TUBE

Irma Pineda / Festival de Poesia Carlos Montemayor 2010