RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Recensione ambulante / Bartali a Vienna, di Alessandro de Lisi

[Tempo di Lettura: 5 minuti]

Bartali a Vienna è una donna
Successo a teatro per la grande storia del Campione italiano
che ha salvato ottocento ebrei

          Luna e Gnac è una compagnia teatrale indipendente, da Bergamo dove risiede è attiva da dieci anni nel panorama internazionale, senza mai rinunciare ad un forte radicamento territoriale, nelle scuole, nelle comunità, nelle biblioteche. I protagonisti di Luna e Gnac sono professionisti da oltre venti anni: Carmen Pellegrinelli, Federica Molteni e Michele Eynard conducono una complessa e unica ricerca nella memoria più profonda e periferica del Paese e d’Europa, trasformando piccoli fatti, storie a forte rischio di estinzione civile, in opere per il teatro di parola.
          Oggi Luna e Gnac è un caso editoriale, con un lavoro teatrale unico – “Gino Bartali, eroe silenzioso” sulle vicende umanissime del grande campione del ciclismo mondiale, indiscutibile stella per una buona parte del Novecento.
          Bartali, per tutta la vita ha taciuto un’epopea di coraggio e altruismo, avendo salvato oltre ottocento persone di fede ebraica dalla deportazione, trasportando nel telaio della sua bicicletta – durante tappe ad hoc per gli allenamenti – decine di documenti d’identità contraffatti tra Firenze e Assisi.
          Questa è la storia che i tipi di Luna e Gnac hanno deciso di portare sul palco per oltre centosessanta repliche in Europa, in Italia, nei teatri e nelle scuole, incontrando più di venticinquemila persone, soprattutto giovani.

Bunker + kindergarten: uno dei sei bunker della Seconda Guerra mondiale ancora integro nel cuore di Vienna. 2019

           Quando rispondo alla necessità di andare, di partire, lasciare quindi il mio antro rassicurante di libri e di identità precaria, assecondando la chiamata delle mie origini, cerco sempre una motivazione speciale per scegliere la meta del pellegrinaggio.
          Questa volta Vienna ha chiamato, più forte del solito.
          Fatico molto a muovermi nella liturgia della partenza, bagaglio, quali volumi portare – nella borsa ho messo Abraham Joshua Heschel, Il Sabato e Delilah Gutman, Alfabeto d’amore – che dress code adottare, prevedendo eventuali incontri più raffinati.
          Alla fine, nella piccola borsa rimangono sempre le solite camicie e le giacche di lana, scarpe comode e pantaloni adatti ai sedili delle metropolitane. I pantaloni sono sempre gli stessi.
          Convinto, tuttavia, che non interessi troppo l’intimità del mio bagaglio, tralascio quali pensieri possano muovermi, io Giuseppe Moshe Moscato, a scegliere altri ammennicoli rituali, vanità superflue ma tanto confortanti per un lungo viaggio.
          Torniamo alla motivazione della tappa attuale, di questo mio ennesimo dislocamento, che mi ha condotto in queste ore a Vienna, Heimat allargata e indissolubile di Roth e Marai, capitale dei più buoni piatti kosher: recuperare il testimone di una storia speciale, assistere al prodigio del racconto pubblico, allo stupore di stare attorno al fuoco della Verità.


          Ho aperto la doppia porta di legno verniciato di marrone, entrando nelle salette della sua libreria antiquaria, in una strada battuta da turisti che snocciolano selfie e marciano senza sollievo: silenzio, questo è il regno degli Steiner, di Trude e Ariela.
          Entrati, il profumo vi assale, della carta, del marocchino delle copertine, del legname degli scaffali, salato come di nave, vorreste abitare anche voi in questa casa dei ricordi e della memoria.
          Trude è figlia della sopravvivenza degli affetti, ha perso su per il camino di Auschwitz diciannove familiari prossimi, sua figlia Ariela è l’ultima testimone delle sue lacrime. Entrambi, nel retro, dietro la penombra delle pile di libri non ancora inventariati e stimati, superata la poltrona di pelle che fu del nonno Shlomo, si trova un vecchissimo Aron-Ha-Kodesh, sopravvissuto al rogo di Bratislava.
          Qui, Trude tiene tutte le storie dei Salvati, del benefattore, del Giusto che li ha riportati nel mondo dei viventi, oppure protetti, come nel caso dei Goldberg e di Gino Bartali.
          Se la storia loro, dei Salvati e del Giusto, non si perde, se viene recuperata e trasmessa pubblicamente attraverso qualunque strumento, con la letteratura, con le fotografie, con il cinema, il teatro – come nel nostro caso – lei sposta la scheda dalla pila di chi ancora aspetta questa fortuna, chiude il loro nome e la loro storia sotto chiave, in una vecchia scatola di vino di Bordeaux, custode dei passaggi finali, l’ultimo hard disk di legno e carta.
          Per sempre.
          Federica Molteni è una gigantessa, una mattatrice senza tentennamenti e inciampi sul palco, ella è Bartali, da donna si fa più uomo di qualunque uomo che aspirerebbe a tanto, non perde niente della grazia di una signora, trasformandola in dinamite che fa esplodere tutti i pregiudizi.
          Questo, bellezza, non è un lavoro da uomini!

Federica Molteni

          Interpreta il Campione, ne ha salvato la memoria più profonda, ne segue la vita, fatica come lui ad allenarsi sulle polverose salite della Toscana, sceglie con lui la strada più lunga per tornare a casa, con la sua bicicletta pesante come un cancello.
          Molteni parte sempre in salita, al suo fianco, dietro al palco i primi a tirarle da anni la volata, per centosessantasei repliche e oltre venticinquemila spettatori, Carmen Pellegrinelli e Michele Eynard.
          Racconta (ispirata da un libro di Antonio Ferrara, La corsa giusta) l’epopea del Campione Bartali, prototipo italiano perfetto, seppur involontario e contrario, icona dello sportivo fascista, così almeno sperava Mussolini.
          All’apice della carriera, tra sacrifici, dolore e amore per la sua Adriana, Bartali sceglie quanto chiestogli dal Cardinale Elia dalla Costa, Arcivescovo di Firenze: aiutare i fratelli ebrei a sopravvivere, a fuggire, a raggiungere la salvezza in America grazie ai documenti falsi.
          Ancora, Bartali nasconde in casa, in soffitta, un’intera famiglia, i Goldberg, salvando anche loro direttamente, non solamente attraverso il rischiosissimo lavoro di “portalettere” tra Firenze e Assisi, nelle sue apposite tappe di allenamento forzato: centottanta chilometri a botta, ogni volta.
          Bartali scampa al terribile fascistissimo assassino, il gerarca Mario Carità, entrando e uscendo da Villa Triste e nonostante questo non molla la sua bicicletta, che via via sul palco di Vienna si è definitivamente trasformata nell’Arca della fratellanza. Tutto questo Federica Molteni lo racconta diventando Bartali, lo lancia come un siluro di poesia sotto la superficie dell’indifferenza, colpendo appieno l’obiettivo, la s-memoria civile del tempo presente.


          L’Istituto Italiano di Cultura di Vienna e il sostegno generoso della Comunità Ebraica viennese, alla presenza dell’Ambasciatore d’Italia in Austria Sergio Barbanti e di Erika Jakubovits, pilastro nella ricerca delle opere d’arte rubate agli ebrei dai nazisti e dai fascisti, durante la Shoah, hanno reso possibile questa occasione di verità, di poesia e di memoria impossibile da eludere, messa in scena perfetta e si spera ripetibile. Applausi in piedi per i tre autori del miracolo italiano: ancora è possibile fare buone produzioni indipendenti, senza padroni e padrini.
          Oggi Bartali è un Giusto fra le Nazioni e un albero cresce, col suo nome, nel giardino dello Yad Vashem a Gerusalemme.

Foto: Vienna, 2019 © Alessandro de Lisi