RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Dietro le quinte del Bolshoi, di Annalisa Bottani

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Dietro le quinte del Bolshoi

Il documentario inglese «Bolshoi Babylon», diretto da Nick Read nel 2015, è dedicato a quello che è molto più che un teatro: un vero e proprio santuario della cultura

   di Annalisa Bottani

Scrivete la verità perché la parola viva,
perché, nascosto sotto il velo,
il pensiero, avvolto come una molla,
scattando all’improvviso, uccida.
Raccolta “Feniks ’66” curata da Jurij Galanskov – 1966

«Non ci sono molti simboli che rappresentano la Russia: uno è il Teatro del Bolshoi, l’altro è il kalashnikov, ormai “fuori moda”. Ma non è così per il Bolshoi che riveste “quasi un ruolo sacro per la Russia”, anche alla luce del suo profondo legame con il “carattere nazionale” russo».

Inizia così il documentario inglese Bolshoi Babylon, diretto da Nick Read nel 2015, che per la prima volta mostra il “dietro le quinte” di un vero e proprio santuario della cultura. Costruito sul progetto dell’architetto Osip Bove, il Bolshoi venne riaperto nel 1856, anno dell’incoronazione dello Zar Alessandro II, dopo un grave incendio, e ristrutturato dal 2005 al 2011. Molti cittadini dell’ex Unione Sovietica, ricorda Gian Piero Piretto, provano ancora malinconia pensando alle “straordinarie scuole di danza” e alle stelle nate grazie al teatro, tra cui Rudolf Nureev, condannato da molti per aver lasciato il Paese nel 1961.

Secondo il primo ministro Medveded, il Bolshoi è
«un’arma segreta che mandiamo senza alcun problema ad esibirsi negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in molti altri grandi Paesi perché porta un messaggio universale che tutti possiamo comprendere: il linguaggio del balletto classico e dell’opera. E noi continueremo ad utilizzarla per raggiungere i nostri obiettivi».

Il documentario, oltre a mostrare l’organizzazione del teatro, gli intrighi e le storie dei suoi ballerini, tratta anche un episodio sconcertante avvenuto nel 2013: l’aggressione con l’acido da parte di Pavel Dmitrichenko, un ballerino del Bolshoi aiutato da due complici, all’allora direttore artistico del teatro Sergei Filin. Sempre nel 2013 la carica di direttore generale del teatro fu affidata, a seguito di un incontro con il ministro della cultura russo, a Vladimir Urin, spesso in contrasto con Filin, cui non fu rinnovato il contratto nel 2015.

Il documentario evidenzia indirettamente alcuni aspetti utili a capire le dinamiche che caratterizzano il settore culturale e, in particolare, il rapporto tra potere e cultura nell’era putiniana. In molte dittature e democrature la cultura è sempre stata utilizzata a fini propagandistici e posta al servizio dello stato. Lo stesso Urin, che nel marzo del 2014 firmò una lettera aperta (pubblicata sul sito del ministero della cultura) di sostegno a Putin in merito alla politica adottata in Ucraina e Crimea, spiega – proprio nel documentario – che la sua è una carica decisa ai più alti livelli politici, e non solo per meriti acquisiti sul campo.

Tutto questo non è una novità. L’elemento nuovo, infatti, è dato dalle modalità con cui questi due aspetti – censura e ingerenza nel settore culturale – sono declinati. Ciò che avviene al Bolshoi, spiegano in Bolshoi Babylon, è in scala rispetto a quello che accade nel paese:

«Se c’è caos nel Paese, c’è anche nel Bolshoi. Per questo abbiamo bisogno di una mano forte sia per guidare la Russia che il Bolshoi».

In tal senso il Boshoi svolge, con un ruolo primario insieme ad altre importanti istituzioni culturali, la funzione di “specchio” sociale e politico. Lo dimostra un altro evento che ha recentemente catalizzato l’attenzione dei media di tutto il mondo, provocando lo sconcerto dell’opinione pubblica occidentale e di molti dissidenti russi: l’arresto in agosto del regista e direttore artistico del Gogol Centre, Kirill Serebrennikov, accusato di appropriazione indebita di fondi governativi, circa 68 milioni di rubli (più di un milione di dollari), destinati alle produzioni del suo teatro.

All’arresto si era aggiunto un altro avvenimento che aveva suscitato molte polemiche e un aspro dibattito sul livello di censura ormai imperante. A luglio, tre giorni prima del debutto, il teatro aveva cancellato un balletto – diretto sempre da Serebrennikov – dedicato alla storia di Rudolf Nureev e promosso come l’evento della stagione. Inizialmente non venne data alcuna spiegazione ufficiale. Il direttore generale Urin, che si era rivolto a Putin definendo errato il trattamento riservato a Serebrennikov ormai in stato di arresto, aveva dichiarato, in seguito, che l’allestimento non era ancora pronto, ma questa motivazione è stata accompagnata da numerose indiscrezioni.

Secondo alcuni, la cancellazione era legata al timore che nello spettacolo fossero presentati alcune personalità pubbliche e politici ancora in vita. L’altra, forse più attendibile, suggeriva invece l’intervento o della Chiesa o del ministero della cultura, che vedeva nella performance un oltraggio ai valori non tradizionali di cui l’opera, secondo loro, poteva farsi promotrice. Il riferimento è chiaro: secondo i funzionari, lo spettacolo poteva violare la famigerata legge del 2013 che vieta la “propaganda dell’omosessualità” tra i minori, un provvedimento che proibisce, tra l’altro, la possibilità di parlare in difesa dei diritti degli omosessuali e di distribuire materiale che promuova le istanze delle persone omosessuali.

A sorpresa, tuttavia, il teatro ha deciso di riproporre a dicembre lo spettacolo su Nureev. Una scelta che ha stupito molte persone, anche per le modalità in cui si è svolto: biglietti venduti in poche ore, lunghe file al botteghino e la presenza dell’élite culturale e governativa alla prima, dal portavoce di Putin al direttore di Channel One, Konstantin Ernst. Secondo quanto riportato da Joshua Yaffa del New Yorker, questa scena sembrava

«una versione aggiornata del congresso del comitato centrale del Partito comunista».

Il tutto si svolgeva mentre il direttore dello spettacolo, Serebrennikov, a cui è proibito parlare con i giornalisti, era agli arresti domiciliari. Tra gli spettatori molti hanno gridato “Bravo, Kirill” e dopo la performance alcuni ballerini sul palco hanno indossato maglie con la scritta “Libertà al direttore” e la foto del regista. Molti sono convinti che la sua condanna non sia affatto legata all’accusa di appropriazione indebita di fondi, accusa molto popolare nell’era putiniana. Questo episodio è stato subito associato al caso di un altro direttore teatrale – Vsevolod Meyerhold – fucilato nel 1940 durante le
purghe staliniane.

Rudolf Nureev

L’arresto di Serebrennikov ha destato, anche in patria, notevoli preoccupazioni in quanto sembra suggerire un aumento dei livelli di censura e una rinnovata ingerenza governativa che sta ormai colpendo tutti, indiscriminatamente, ricordando antichi metodi ormai in disuso.

Secondo quanto riportato da Oleg Kashin per il New York Times, nei primi anni della gestione putiniana gli arresti erano sempre motivati politicamente e molti esponenti di spicco del settore culturale erano stati risparmiati. Ma dopo l’arresto di Serebrennikov il primo paragone fatto dai media è stato proprio con il direttore fucilato da Stalin nel 1940. Un paragone che, secondo molti, è azzardato, ma che presenta alcune somiglianze, anche se Meyerhold non era un vero e proprio dissidente e contribuì all’arresto di molti direttori. Serebrennikov, invece, aveva spesso sostenuto artisti antigovernativi, come le Pussy Riot.

In realtà, nel corso della sua carriera che si è sempre distinta per un approccio all’avanguardia e opere satiriche che prendevano di mira anche il potere politico, Serebrennikov dieci anni fa era nelle grazie governative. Organizzò il festival Territory supportato dal Cremlino e mise in scena Almost zero tratto da un’opera di Nathan Dubovitsky, considerato da molti (anche se il Cremlino nega) lo pseudonimo di Vladislav Surkov, eminenza grigia e consigliere di Putin, che ha sempre svolto la funzione di “ponte” tra il governo e il mondo culturale russo.

Come ricorda Joshua Yaffa, nei primi anni della gestione putiniana era proprio Serebrennikov a rappresentare le tendenze all’avanguardia dell’era Putin. Lo confermano anche le dichiarazioni dell’ex ministro della cultura Mikhail Shvydkoy, figura tuttora di spicco per il mondo culturale. È stato proprio Shvydkoy a dichiarare che durante il suo mandato lo stato spesso supportava le spinte all’innovazione e alla sperimentazione, le scelte non sempre convenzionali degli artisti. Un fenomeno che caratterizzò, nello specifico, il secondo mandato presidenziale di Putin e, in parte, anche la breve gestione Medvedev. Con questa scelta il Cremlino sperava di mandare un messaggio all’Occidente,  la volontà di coinvolgerlo e, nel contempo, di mostrare agli artisti la possibilità concreta di lavorare con lo Stato. Anche in questo caso il rapporto di collaborazione tra Serebrennikov e Surkov fu paragonato a quello tra il direttore Meyerhold e Trockij. Tuttavia, la collaborazione tra Serebrennikov e il Cremlino durò meno del previsto.

È sempre Josua Jaffa a ricordare l’invito del noto critico teatrale Marina Davydova a Kirill di non avvicinarsi troppo al potere, consapevole di forze ostili già pronte a prenderlo di mira. E così avvenne. Nel 2012 Putin scelse Vladimir Medinsky quale ministro della cultura, dando impulso a una nuova svolta basata sul risentimento verso l’Occidente, sulla valorizzazione della Chiesa ortodossa e sulla promozione di valori conservatori. Secondo quanto riportato da Marat Guelman (le fonti sono Radio Free Europe e Radio Liberty), noto gallerista d’arte, in contrasto con il governo per le opere satiriche realizzate in occasione delle Olimpiadi del 2014, sotto Putin gli artisti che al tempo potevano essere “outsider neutrali” sono stati coinvolti nei conflitti culturali della Russia. Sempre secondo Guelman, ormai non è più sufficiente solo la lealtà. I vertici politici desiderano che gli artisti condividano il loro pensiero:

«Siamo patrioti. Siamo a favore dell’isolamento. Il mio lavoro creativo è contro l’America, contro i liberali».

Per capire l’arresto di Serebrennikov bisogna dunque contestualizzarlo nello scenario politico e comprendere le logiche della gestione Putin. Le autorità russe hanno sempre sottolineato che:

«se un artista riceve fondi dallo Stato, allora deve solo fare ciò che è nell’interesse dello Stato».

Un concetto ribadito da Peskov, portavoce del presidente Putin:

«Se lo Stato finanzia una produzione, lo Stato stesso ha il diritto di scegliere i temi da trattare».

A tutto ciò si aggiunge un altro elemento: gran parte della vita culturale russa dipende dai finanziamenti statali, soprattutto per quanto riguarda le arti drammatiche. Più di seicento istituzioni teatrali sono statali e il settanta per cento del loro budget dipende dallo Stato. Dunque, a conti fatti, la scelta è limitata. Sono stati in molti a rendersi conto (a volte troppo tardi) che la scelta dello Stato di seguire l’arte attraverso i finanziamenti era un pericolo reale per tutti quelli coinvolti. Per il critico teatrale dell’edizione inglese di The Moscow Times, “le leggi creano confusione” ed è impossibile per un manager teatrale gestire una struttura senza infrangere la legge.

Vladimir Urin

È tuttavia fondamentale riconoscere che la gestione putiniana del dissenso non è affatto lineare, ed è talvolta complesso riconoscerne le contraddizioni e le regole che la governano. Secondo Natalia Antonova (The Guardian), nel periodo sovietico il governo stabiliva limiti precisi (tracciando, per usare l’espressione efficace della Antonova, “linee nella sabbia”), indicando agli artisti quelli che non potevano superare. L’artista era, dunque, consapevole dei rischi in cui poteva incorrere e quali decisioni prendere per evitare di scontrarsi con il potere.

Secondo lo storico Marco Clementi (Storia del dissenso sovietico, Odradek Edizioni, 2007) il meccanismo che creava l’incompatibilità tra intellettuali e potere in URSS (e in seguito nelle democrazie popolari) è stato illustrato dal poeta Iosif Brodskij durante il discorso tenuto nel 1987 a seguito dell’accettazione del Premio Nobel per la letteratura. Per Clementi è

«un discorso esemplare che riassume i principali punti di attrito tra Stato e letteratura in generale e tra realtà politica del socialismo reale e creazione letteraria».

Qual era il punto di vista di Brodskij?

«Se l’arte insegnava qualcosa, ciò doveva essere nella dimensione privata della condizione umana in quanto solo l’arte era in grado di stimolare nell’uomo il senso della sua unicità trasformandolo da animale sociale in un Io autonomo. Per questo motivo nei regimi totalitari l’arte in generale, la letteratura in particolare, dovevano essere necessariamente imbrigliate all’interno di rigidi schemi ideologici; al contrario, il regime avrebbe perduto il controllo del suo ulteriore sviluppo e non avrebbe potuto agire come il padrino degli ingegneri di anime».

Utilizzando lo schema cronologico di Clementi, dal 1953 al 1964, dopo la morte di Stalin iniziò un periodo di destalinizzazione ed emerse una voglia di libertà creativa da parte della gioventù moscovita, dando vita al fenomeno della samizdat (la cosiddetta “editoria autonoma”). Dal 1965 al 1967, a causa del nuovo leader Leonid Brežnev, si fece nuovamente un passo indietro che portò a nuovi arresti in ambito letterario, dando impulso a numerose azioni di protesta e trasformando il dissenso in una realtà concreta e importante per la società sovietica. Dal 1968 al 1972 Andrej Sacharov scrisse il Trattato ma, malgrado la continua crescita del movimento, nel 1972 le autorità decisero di reprimere le proteste con “un alto numero di arresti”.

Sergei Filin

Dal 1973 al 1974 si verificarono anni di “crisi e riflusso”, anche se venne aperta proprio in Russia la sezione di Amnesty International. Dal 1975 al 1982, oltre al conferimento del premio Nobel a Sacharov, la lotta tra potere e dissenso divenne molto aspra e la repressione notevole. Il 1982 vide molti dissidenti in carcere, nei campi di lavoro o all’estero, mentre Sacharov era in esilio dal 1980 a Gor’kij. L’ultimo periodo, che inizia nel 1983, si conclude nel 1991: vi fu un ritorno dell’azione riformatrice nelle mani del partito comunista che elesse Gorbaciov primo segretario del comitato centrale. Le sue riforme portarono alla liberazione di tutti i “prigionieri di coscienza” e all’emanazione di una legge per la riabilitazione. Tutto si fermò nel 1991, anche se è opportuno ricordare che, seppur secondo modalità differenti, anche sotto Eltsin e nella prima fase della gestione putiniana gli artisti riuscirono a respirare un po’.

Ma come si differenzia il dissenso nell’era putiniana? Sempre secondo la Antonova, in epoca sovietica le “linee tracciate nella sabbia” sono, invece, tracciate “in aria” sotto Putin. Vengono spesso modificate secondo il volere del presidente o rinnegate dallo stesso in quanto considerate “immaginarie”. Nessuno sa realmente come funzioni la macchina della censura: se la censura è presente, purtroppo, talvolta proviene dagli artisti stessi che si autocensurano temendo di perdere incarichi o fondi dallo Stato. Le arti diventano, dunque, un campo di battaglia in cui si scontrano valori progressisti e conservatori.

La censura in Russia, secondo la Antonova, è “un gioco”. Sono frequenti gli interventi di individui che, di propria iniziativa, per fare un favore al potere o a Putin stesso, attuano un sistema di repressione finalizzato alla creazione di scandali che possano essere “sfruttati” dal potere. E questo gioco, infatti, funziona perfettamente per Putin. Assicura che il mondo della cultura possa continuare a prosperare, garantendo nel contempo la sopravvivenza agli artisti russi in un contesto di vita imprevedibile e stressante, ove è necessario riflettere bene sulle azioni da intraprendere e dimostrare la propria lealtà. Vale per il Cremlino e per gli artisti che cercano di portare avanti l’arte di protesta senza dimenticare “l’area grigia” che divide queste due categorie.

Kirill Serebrennikov 

Putin non ha alcun interesse nel distruggere il settore culturale. Anzi, si tratta di garantirne la sopravvivenza “usando” a proprio piacimento gli artisti, com’è avvenuto nel caso nel regista Andrey Zvyagintsev, autore di Leviathan, candidato agli Oscar come miglior film straniero. Inizialmente denigrato dall’apparato governativo per i contenuti fortemente critici verso il governo e la Chiesa ortodossa, dopo l’esclusione dagli Oscar il ministro della cultura è stato il primo a sottolineare il grande talento del regista e “l’irrilevanza” dell’Academy.

La tela che Putin sta cercando di costruire in vista delle elezioni del 18 marzo è quella di collegare il settore culturale ai temi chiave della sua campagna e alla sua visione della Russia. Lo conferma il suo intervento del 21 dicembre al quindicesimo anniversario del Moscow International Performing Arts Centre, inaugurato nel 2002 e che in questi anni ha ospitato artisti provenienti da tutto il mondo. In occasione della visita, Putin ha lodato la capacità del centro di “tutelare le tradizioni gloriose delle arti russe” e di aprirsi a nuove idee, sperimentando sempre nuove iniziative e arricchendo la vita culturale moscovita e della Russia.

Il 21 dicembre, al Cremlino, intervenendo al meeting del consiglio presidenziale per la cultura e l’arte, è stata discussa l’implementazione dell’ordine esecutivo relativo all’approvazione della “Basis of State Cultural Policy” che prevede un miglioramento dei principi cui si ispira il provvedimento, una maggior cooperazione tra associazioni culturali e organizzazioni che rappresentano gli artisti, senza dimenticare la regolamentazione giuridica delle attività culturali.

Il messaggio di Putin – seppur “diluito” nella retorica governativa standard – è stato molto chiaro: la cultura non è solo uno strumento polifunzionale in grado di tutelare e mantenere i valori della tradizione, morali, estetici e spirituali, ma anche la base per una società libera e armoniosa capace di mantenere la propria integrità, mostrandosi, comunque, aperta alle tendenze dello sviluppo globale.

Secondo Putin, la cultura non deve essere percepita come un settore sociale che fornisce servizi, considerato il suo forte legame con l’economia, lo sviluppo tecnologico, la formazione eccetera. È una “missione” e un “bene pubblico”. E i principi alla base di questa visione devono essere utilizzati ai fini della preparazione di una nuova legge sulla cultura che vedrà il contributo di tutti i componenti del consiglio.

L’intervento normativo ha radici più profonde: la formazione (in linea con i desiderata del governo) del personale del settore culturale, la regolamentazione a livello giuridico del supporto finanziario alla formazione degli addetti del settore culturale e una revisione del sistema contrattuale.

Per rendere più incisiva la percezione della sua visione, Putin ha annunciato di voler stanziare per il 2018 un miliardo di rubli l’anno per identificare e supportare i giovani talenti. Ed è questo un altro importante tassello non solo della sua campagna elettorale, la nota “youth agenda”, ma anche il tentativo di formare i giovani “talenti” (in ambito culturale e scientifico). Proprio durante la conferenza stampa del 14 dicembre ha confermato il suo impegno a favore dei bambini talentuosi, citando strutture note in tutta la Russia come, ad esempio, il centro educativo Sirius e altre strutture come Orlyonok nel Caucaso e Artek, situato in Crimea e fondato nel 1925 per i giovani Pionieri (membri di organizzazioni giovanili legati al Partito comunista), divenuto oggi un luogo di eccellenza per la gioventù russa.

Iosif Brodskij

Nell’era putiniana, la “cultura” diviene quindi una palestra per la formazione non solo dei giovani, ma anche della futura classe dirigente opportunamente ispirata dagli insegnamenti governativi. E, soprattutto, si viene a configurare un “codice culturale” fondamentale per lo Stato russo e la nazione che può davvero unire il Paese, che presenta dal punto di vista storico, linguistico e sociologico peculiarità assai diverse. Basti pensare alla coesistenza di “popoli diversi”, dai Tatari ai Ceceni, dal popolo dei Mari agli Yacut.

Non sappiamo con esattezza se questo metodo riuscirà a condizionare davvero la mentalità dei giovani russi o rimarrà, al di là dell’apatia e dell’indifferenza, uno spiraglio di dissenso. In caso contrario in pochi riusciranno a comprendere il pensiero che, ai tempi di Stalin, Bulgakov aveva maturato e di cui si era fatto portavoce attraverso uno dei personaggi del suo romanzo Il Maestro e Margherita, scritto tra il 1929 e il 1940, ma pubblicato postumo nel 1967:

«… In generale uno scrittore non viene individuato da un attestato, ma da quello che scrive!».

Annalisa Bottani
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ANNALISA BOTTANI

Annalisa Bottani collabora, attualmente, con la Rivista “Ytali” e, in passato, con altri periodici, occupandosi di Russia, politica, arte e cultura. È responsabile anche delle pubbliche relazioni romane della Rivista letteraria “Il Maradagàl”. 

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