RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Mark Tobey – L’arte di “lasciare libero il passaggio”, di Dennis Ercole

[Tempo di Lettura: 15 minuti]

Luce filante: una nuova retrospettiva su “Il mistico del Northwest” alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia

di Dennis Ercole 

Si tratta di osservare, semplicemente porre attenzione a ciò che incontra il nostro sguardo, senza pregiudizi, cogliendo le cose in sé qui ed ora. Infiniti piccoli mondi restano celati ai nostri occhi, fino a quando non “lasciamo libero il passaggio”: il mettere da parte i ragionamenti, i pensieri e le emozioni, acquietando la mente di fronte alla realtà visibile. In questo modo attraverso una visione intuitiva, potremmo perciò osservare in tutta la loro ricchezza di forme e colori, le trame e le tessiture della materia stessa, fino a giungere alla sua vera essenza illusoria. Questo approccio contemplativo, di matrice orientale, zen, assieme ai valori spirituali della fede Bahá’í, sono gli elementi fondamentali che influenzano profondamente la vita e l’opera dell’artista americano Mark Tobey (Centerville, Wisconsion, 1890 – Basilea, 1976) al quale è dedicata la nuova mostra allestita nelle sale della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia.

Mark Tobey nel suo studio, 1949. Courtesy Arthur Lyon Dahl. Photo by © Larry Novak

Presentata da Philip Rylands, direttore uscente del museo e curata da Debra Bricken Balken, questa esposizione chiamata  “Mark Tobey: Luce filante”, punta ad essere la più completa ed esaustiva retrospettiva degli ultimi vent’anni sul pittore della cosiddetta “scuola del pacifico”. Dal 6 maggio al 10 settembre 2017, si potranno infatti osservare ben 66 opere realizzate dal precursore dell’Espressionismo astratto, il movimento artistico statunitense nato negli anni ’40 di cui fanno parte, tra gli altri, Jackson Pollock, Mark Rothko, Willem de Kooning e Franz Kline.

Mark Tobey, artista nomade, dopo aver trascorso l’infanzia nel Midwest americano, tra il Wisconsin e l’Indiana, passa parte della sua vita tra Chicago, Seattle e New York, alternando periodi di lavoro a molteplici viaggi in tutto il mondo. I soggiorni in Europa, Medio Oriente e Asia orientale, amplificano la sua sensibilità portandolo a realizzare opere dal profondo spirito internazionale, in grado di creare un vero e proprio ponte tra Anime, tra Est e Ovest. «Tutta l’umanità, che si tratti di Oriente o Occidente è collegata attraverso un legame di affetto divino, poiché siamo tutti onde di uno stesso mare»: è la frase che Tobey cita in molte occasioni, riprendendo le parole di Bahá’u’lláh, il fondatore della fede Bahá’í.

Luce filante, 1942
Luce filante, 1942, Tempera su pannello – The Museum of Modern Art, New York Acquisto, 86.1944 – © 2017 Mark Tobey / Seattle Art Museum, Artists Rights Society (ARS), New York

La Fede Bahà’i che nasce in seno all’Islam attorno alla metà del 1800 e che condivide alcuni princìpi con il sufismo, è una religione autonoma che spiega il rapporto dell’uomo nel suo storico e dinamico legame con Dio attraverso il concetto di relatività e progressività della religione, riconciliando così la Storia con ogni monoteismo e anche con le ere precedenti alle religioni abramitiche. Lo scopo ultimo della religione Bahá’í è l’unità del genere umano e la pace universale. L’influenza di questa fede in relazione all’arte di Tobey è qualcosa che lo stesso artista riconosce in molte occasioni.
Egli scrive nel 1934: «La radice di tutte le religioni dal punto di vista Bahá’í è basata sulla teoria che l’uomo arriverà gradualmente a comprendere l’unità del mondo e l’unità del genere umano. Essa insegna che tutti i profeti sono essenzialmente uno e che la scienza e la religione sono le due grandi forze che debbono essere in equilibrio se l’uomo vuole essere maturo. Io sento che il mio lavoro è stato influenzato da questi pensieri. Ho cercato di decentralizzare, di compenetrare, cercando di esprimere determinati valori attraverso la pittura… Miei sono, l’Oriente, l’Occidente, scienza, religione, città, spazio e scrivere un quadro». Nel 1962 afferma poi: «Devo dire che mi ha dato una forza straordinaria e io ho cercato di utilizzarla senza fare propaganda. È vero che oggi si parla di stili internazionali, ma credo che nell’avvenire si parlerà di stili universali… l’avvenire del mondo deve essere la materializzazione della sua unicità, questo è l’insegnamento principale della fede Bahá’í come la intendo io, e a partire da questa unicità emergerà un nuovo spirito nell’arte».
Osservando i dipinti de “Il mistico del Nord-Ovest” o “Il Saggio di Seattle”, come viene definito l’artista dai giornalisti degli anni ‘50, si percepisce il profondo legame tra spirito, umanità e natura ricercato da Tobey e si ha l’impressione di stare ad osservare immagini che ricordano un pulviscolo di molecole, la trama di una ragnatela in perenne movimento, piuttosto che il fumo di un incenso o raffinati ricami di luce.

Transizione pacifica, 1943
Transizione pacifica, 1943 – Tempera su carta, Saint Louis Art Museum, Donazione Joseph Pulitzer, Jr., 242:1954 – © 2017 Mark Tobey / Seattle Art Museum, Artists Rights Society (ARS), New York

La mostra inizia con i primi approcci alla pittura, opere ancora legate in parte al figurativo, naturale sviluppo pittorico della carriera di Tobey come illustratore di moda, ritrattista e decoratore, professioni che svolge fino ai primi anni ’20 tra Chicago e New York. Nel piccolo dipinto Toward the light del 1930, realizzato dopo i viaggi a Parigi, Barcellona, Atene e successivamente a Istanbul e Beirut – dove Tobey rimane rapito dall’eleganza della calligrafia persiana e araba, l’arte sacra per eccellenza insieme alla lettura del Corano per la cultura sufi – è fin da subito presente l’elemento che più affascina l’artista: la luce, una luce di matrice divina in grado di illuminare lo spirito, espressa in questa tela con pennellate vibranti, che ricordano le iridescenze degli astri del cielo notturno di Notte stellata di Van Gogh. In Middle West del 1929 e in Algerian Landscape del 1931, si possono poi osservare le prime influenze del cubismo europeo, paesaggi metafisici caratterizzati da composizioni geometriche che rivelano uno stile non ancora del tutto personale da parte del pittore.
Durante il periodo in cui insegna disegno e pittura, prima a Seattle alla Cornish School of Arts e poi in Europa nel Devonshire alla Dartington Hall, Tobey è alla costante ricerca di nuove possibilità espressive. Le strade cariche di luci al neon tipiche delle vedute cittadine americane, e le folle brulicanti di persone che le attraversano catturano l’attenzione dell’artista; egli diventa un attento osservatore del mondo che lo circonda, assimilando quell’energia profondamente vitale che in seguito riuscirà a trasmettere in tutte le sue opere.

Frammenti nel tempo e nello spazio 1956
Frammenti nel tempo e nello spazio, 1956 – Guazzo su carta, Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington, DC, Donazione Joseph H. Hirshhorn Foundation, 1966 – © 2017 Mark Tobey / Seattle Art Museum, Artists Rights Society (ARS), New York

Nel 1934, finanziato da Mr. e Mrs. Leonard Elmhurst (i quali sostengono la scuola di Dartington Hall), Tobey parte per l’estremo Oriente. La Cina e il Giappone sono le mete che arricchiscono ulteriormente il genio del pittore americano, facendolo avvicinare alle pratiche e al pensiero zen. Attraverso questi studi egli si rende conto che la pittura può diventare un vero e proprio atto meditativo, in grado di connettere il corpo, la mente e lo spirito.
Dopo aver visitato Hong Kong e Shanghai, in Giappone trascorre un mese in un monastero zen a Kyoto, qui dialoga con i monaci e gli adepti, pratica la meditazione, la calligrafia e la pittura ad inchiostro di china sumi – e. In seguito ad una lunga conversazione con un monaco pittore che gli insegna l’alfabeto giapponese, Tobey racconta: «Un giorno mi trovavo sulla terrazza della mia camera, che dava su un piccolo giardino, un angolino intimo, pieno di boccioli in fiore sui quali planavano danzando le libellule, e ho sentito che questo piccolo mondo, quasi al di sotto dei nostri piedi, ha il proprio valore e che noi dobbiamo realizzarlo e apprezzarlo al suo livello nello spazio. D’un tratto ho sentito che troppo a lungo non avevo fatto altro che rimanere al di sopra dei miei piedi».
Da questa rivelazione nasce in Tobey la consapevolezza di una realtà che fino ad allora è quasi rimasta celata ai suoi occhi. L’antica arte calligrafica orientale, che per le culture dell’estremo Oriente è il veicolo principale per trasmettere l’essenza stessa delle cose unicamente attraverso il segno, diventa così per Tobey la via più naturale per dare forma a questo nuovo mondo.
«“Lascia che la natura assuma il controllo del tuo lavoro”; queste parole del mio amico Takïzaki in un primo momento mi disorientarono, ma poi si esemplificarono nel concetto di “Lasciar libero il passaggio”. Oggi alcuni artisti parlano dell’atto del dipingere. Questo, nel migliore dei suoi significati, potrebbe comprendere ciò che il mio vecchio amico intendeva. Ma la preparazione principale è lo Stato d’Animo e l’azione procede da questo. La Pace interiore è un altro ideale, forse lo stato ideale da ricercare nella pittura, e certamente è preparatorio all’atto del dipingere». E ancora: «Osservando un grande drago dipinto con il pennello sul soffitto di un tempio a Kyoto, pensai alla stessa forza ritmica di Michelangelo – la rappresentazione delle forme era diversa, le nuvole vorticose che accompagnavano il suo maestoso volo nella sfera celeste erano diverse, ma vi era la medesima forza spirituale…».

Mark Tobey in Giappone
Mark Tobey in Giappone

Queste esperienze fanno nascere in Tobey l’idea che le forme artistiche possano migrare da Oriente a Occidente e lo portano a sviluppare una particolare sensibilità e uno stile pittorico nuovo chiamato “white writing”: una sovrapposizione di simboli calligrafici bianchi, su un campo astratto composto da migliaia di piccole pennellate. Tobey giunge a utilizzare questi segni calligrafici isolandoli dai loro contenuti poetici tradizionali, rendendoli significativi anche al di fuori del loro sistema linguistico originario, volgendoli dal positivo al negativo, dalla china nera alla tempera bianca. Svuotati dai loro significati, quest’ultimi sono infinitamente ripetibili; la “luce filante” che si dirama sulla superficie della tela diventa un simbolo di illuminazione spirituale, della comunicazione umana, della migrazione nello spazio, delle forme naturali, dei loro processi, e dei movimenti tra i livelli della coscienza. I dipinti esposti, Broadway del 1935/36 e New York del 1944, entrambi dedicati alle vedute cittadine e realizzati da Tobey dopo il suo ritorno in Europa, sono rivelatori del passaggio dalla pittura figurativa a quella astratta. L’osservazione supera la rappresentazione oggettiva della realtà, per giungere alla sua essenza. La città diventa un intreccio di scie luminose, che si espande senza confini nello spazio, che risuona della vita delle persone che la abitano. «L’impulso calligrafico che avevo ricevuto in Cina mi ha permesso di trasmettere, senza essere vincolato dalle forme, il movimento delle persone, delle automobili e l’intera vitalità della scena».

Linee della città 1945
Linee della città, 1945 – Tempera su carta, Addison Gallery of American Art, Phillips Academy, Andover, MA, Lascito Edward Wales Root, 1957.36 – © 2017 Mark Tobey / Seattle Art Museum, Artists Rights Society (ARS), New York

Il documentario Mark Tobey, realizzato nel 1952 dall’etnologo e regista Robert Gadner, situato a circa metà dell’esposizione, è un documento veramente prezioso che ci regala questa retrospettiva. Le musiche e le poesie composte da Tobey, che accompagnano il girato, fanno immergere completamente il fruitore nel mondo dell’artista. L’inaugurazione di una mostra, le passeggiate lungo le strade di Seattle, gli incontri con le persone che popolano il mercato di Pike Place – luogo molto amato dal pittore, teatro di molte scene dei suoi dipinti – mostrano oltre all’attitudine riflessiva e poetica, anche l’entusiasmo, la curiosità e la parte più esuberante di Tobey, il quale riesce a cogliere in tutto ciò che osserva infiniti particolari che si scorgono tra le trame di colore dei suoi dipinti. La mostra prosegue, poi, con opere come Canticle del 1954, dove viene utilizzata la caseina, la principale proteina del latte, per la creazione della “scrittura bianca”, con gli studi sulla linea realizzati con l’acquerello come in Space Lines (Hollyhocks I,II,III) del 1953, fino a giungere ai dipinti realizzati con la tecnica a spruzzo di inchiostro, personalissima reinterpretazione del sumi-e giapponese. In lavori come Lumber Barons e City Reflection, entrambi del 1957, è presente la costante ricerca segnica dell’artista, il bisogno inesauribile di scoprire costantemente nuovi percorsi e formulazioni visive.

Lumber Barons, 1957
Lumber Barons, 1957 – Inchiostro sumi su carta giapponese montata su cartone, The Menil Collection, Houston – © 2017 Mark Tobey / Seattle Art Museum, Artists Rights Society (ARS), New York

Per questa costante migrazione tra stili e tecniche, nel corso degli anni ’50 il critico e teorico francese Michel Tapié (Senouillac, 1909 – Parigi, 1987), autore di Un art autre e promotore dell’arte informale, accosta Tobey a molti artisti europei, americani e giapponesi. Tapié considera la sua esperienza nel mondo dell’arte come un’“avventura” di derivazione dadaista, dove gli artisti vengono definiti dei veri “pionieri” ed esploratori del divenire, vissuta in modo frenetico e appassionato, accentuando quel senso permanente di avanguardia rivoluzionaria. Ciò lo porta a promuovere la prima mostra di Pollock nel 1952 a Parigi, grazie alla quale l’Espressionismo astratto americano viene fatto conoscere in modo definitivo in Europa. Sono proprio le opere realizzate attraverso il “dripping” – la tecnica che consiste nel lasciare sgocciolare il colore su una tela posta direttamente a terra – di Jackson Pollock (Cody, 1912 – Long Island, 1956), che ad un primo colpo d’occhio potrebbero ricordare le tessiture dei dipinti del pittore di Seattle. Come lo stesso Tobey afferma però, lo spirito che guida la loro creazione è completamente diverso dal suo, anzi addirittura opposto, sottolineando che nell’arte di Pollock la pace interiore e la meditazione non presiedono alla creazione; al contrario, alla base dell’azione creatrice vi è un’irrequietudine corporea e un’esaltazione mentale, lontane dai precetti ai quali egli aderisce.
Tobey ha uno sguardo maggiore verso la sensibilità orientale rispetto a quella europea, di riferimento per gli artisti della scuola di New York, e ritiene fondamentale la concentrazione nell’osservazione della realtà, attraverso la quale si riescono a cogliere i profondi elementi dei processi naturali. L’atto meditativo del gesto, la ricerca di un controllo minuzioso del pennello, si può paragonare all’attenzione che viene richiesta nell’antica arte del tiro con l’arco giapponese. Nel libro “Lo zen e il tiro con l’arco”, del 1953, viene descritta in modo minuzioso l’osservazione che deve porre l’arciere prima di scoccare la freccia: «Vedere, guardare, osservare, sono diverse espressioni per i diversi modi di utilizzare lo sguardo. Nell’arte dell’arco, è molto importante saper concentrare lo sguardo in un punto. Un esercizio consigliato è quello di mettersi al davanzale e fissare un fiocco di neve sino a quando cade a terra. Nell’insegnamento delle buone maniere si dice: “L’occhio è l’avamposto, animato dalla mente. Bisogna guardare con molta attenzione. Con la mente ben aperta, si esercita anche lo sguardo interiore”».

Cristallizzazioni, 1944
Cristallizzazioni, 1944 – Tempera su pannello, Iris & B. Gerald Cantor Center for Visual Arts, Stanford University, Mabel Ashley Kizer Fund, Donazione Melitta e Rex Vaughan, e Modern and Contemporary Acquisitions Fund – © 2017 Mark Tobey / Seattle Art Museum, Artists Rights Society (ARS), New York

Gli ultimi lavori esposti, dipinti dalle grandi dimensioni rispetto alla maggior parte della produzione artistica di Tobey, mostrano come ormai la via all’astrazione è ormai definita e matura. In Prophetic Light – Dawn e White World del 1958, e in Unknown Journey del 1966, si percepisce il senso di trascendenza ricercato dall’artista il quale supera anche la “scrittura bianca”, andando a ricoprire completamente la tela di piccole pennellate, in cui segno e colore si espandono in ogni direzione. Una pittura All Over (a tutto campo) dove il riempimento totale dello spazio, nel quale i toni e la disposizione dei segni del pennello sono impercettibilmente in contrasto l’uno dall’altro, è in grado di annullare ogni punto di riferimento per lo sguardo, in grado di generare l’impressione in chi osserva di stare di fronte ad uno spazio vuoto.
L’esperienza del vuoto, di fondamentale importanza per l’arte orientale, è una novità per l’arte occidentale nel momento storico di Tobey. Per la Pittura Ch’an, ovvero la pittura tradizionale del buddismo zen, ma anche più in generale per il pensiero cinese e giapponese, il vuoto, per esercitare la sua funzione, non deve essere riempito, ma accettato come tale; in questo modo diventa un’energia creativa. Per la tradizione culturale occidentale invece il vuoto risulta essere un’esperienza tra le più distanti, qualcosa di indefinito, di minaccioso e che va temuto. Tobey introduce questo concetto nel dipinto The Void Devouring the Gadget Era del 1942, facendo subito intuire quanto la vacuità può diventare qualcosa di realmente spaventoso; un monito contro il materialismo e che prevede in modo quasi profetico la catastrofe atomica che accade pochi anni più tardi. Nel proseguimento della sua ricerca e grazie allo studio sempre più approfondito della religione Bahá’í, Tobey giunge all’idea che lo spazio però in realtà non è mai totalmente vuoto, e che anche dove i sensi dell’essere umano non riescono a percepire nulla, esiste una qualche forma di energia. Il Vuoto dipinto da Tobey è ricco di vita, ogni segno che egli dipinge sulla tela, ogni sfumatura, è fondamentale per donare la sensazione di movimento all’interno del dipinto; una tensione costante tra la creazione di una massa quasi scultoria e contemporaneamente la sua disintegrazione, la costruzione di una struttura, un’architettura quasi immateriale, una finestra su una dimensione in grado di abolire i confini spaziali e temporali dell’opera.

Il vuoto divora, 1942
Il vuoto divora l’era del gadget, 1942 – Tempera su pannello, The Museum of Modern Art, New York, Donazione dell’artista, 264.1964 – © 2017 Mark Tobey / Seattle Art Museum, Artists Rights Society (ARS), New York

L’approccio mistico di Tobey, che riceve nel 1958 il “Gran Premio Internazionale per la Pittura” alla Biennale di Venezia, diventa un vero e proprio punto di riferimento per gli artisti dell’epoca, non solo nel campo delle arti, ma anche come filosofia di vita. Questo si può comprendere anche dalle affermazioni di un’altra grande personalità della costa ovest degli Stati Uniti, il noto compositore John Cage (Los Angeles, 1912 – New York, 1992).
Nel catalogo illustrato che accompagna la mostra, edito da Skira Rizzoli in italiano e inglese, si può leggere una preziosa dichiarazione di Cage del 1939, il quale ammira e ha una grande stima per il lavoro del pittore di Seattle: «Qualcun altro mi ha influenzato oltre a Duchamp, qualcuno che non faceva rientrare il caso nella sua opera: Mark Tobey. Nella mia testa un’opera di Tobey, che tengo in fondo ad una stanza, è diventata la stella polare, la stella che ci guida. Ho cercato la mia strada grazie a quell’opera di Tobey».
Cage, sotto consiglio di Tobey, segue anche per tre anni le lezioni di D.T. Suzuki, un grande divulgatore del Buddhismo Mahayana, e in particolare del Buddhismo Zen, e si reca anch’egli in Giappone per entrare in contatto con la cultura giapponese. Grazie a concetti come il vuoto, l’indeterminatezza, la liberazione dal proprio ego e il superamento all’attaccamento per le cose, sviluppa una nuova musica dove l’ascolto dei suoni diventa anche più importante della composizione stessa.

John Cage
John Cage – Foto di © James Klosty, 1972

La base dello zen è che il mondo reale, come lo cogliamo e lo categorizziamo nella nostra mente, è un’illusione. Non ci sarebbe differenza fra la vita e morte, bene e male, felicità e infelicità. Diversamente dalle religioni che impongono una morale e che richiedono un’esperienza di conversione, secondo lo zen ciascuno di noi è “illuminato”. L’unica autorità che il Buddhismo Zen riconosce e su cui fonda il proprio insegnamento è tuttavia la particolare esperienza che viene indicata come Satori (“Comprensione della Realtà”), o anche kenshō, («guardare la propria natura di Buddha», ovvero «attualizzare la propria natura “illuminata”»). D T. Suzuki spiega nell’introduzione al libro Lo zen e il tiro con l’arco questo concetto: «Satori, in termini psicologici, è un oltre i confini dell’Io. Da un punto di vista logico è scorgere la sintesi dell’affermazione e della negazione, in termini metafisici è afferrare intuitivamente che l’essere è il divenire e il divenire è l’essere». Questa esperienza non viene semplicemente identificata come “intuizione”, quanto piuttosto come un’esperienza improvvisa e profonda che consente la “visione del cuore delle cose”, la quale risulta essere identica alla “natura di Buddha”. Tale “natura di Buddha” è la natura di tutta la realtà, del cosmo e del Sé e corrisponde alla stessa vacuità indicata dall’Ensō, un simbolo dalla forma circolare tra i più significativi dello zen. Lo stesso Mark Tobey, che riesce ad osservarne uno realizzato da un monaco durante il suo soggiorno al tempio zen di Kyoto, durante il suo viaggio in Giappone, ne fu particolarmente colpito per la forza espressiva.
«Al monastero zen mi fu dato un dipinto sumi su cui riflettere; si trattava di un grande cerchio vuoto, eseguito con il pennello. Che cosa rappresentava? Lo guardavo ogni giorno. Indicava l’altruismo? Rappresentava l’Universo – nel quale avrei potuto perdere la mia identità? Forse non riuscivo a cogliere l’estetica e la raffinatezza del tratto, che ad un allenato sguardo orientale avrebbe invece rivelato molto sul carattere dell’uomo che lo aveva dipinto. Dopo quel soggiorno, tuttavia, mi accorsi di avere nuovi occhi; ciò che prima mi appariva di poca importanza diveniva amplificato, e le riflessioni non erano più basate sul mio precedente modo di vedere».

D.T. Suzuki e John Cage, 1962, Giappone
D.T. Suzuki e John Cage in Giappone, 1962

Cage, racconta il modo in cui Tobey ha la capacità di scoprire momenti di vera illuminazione attraverso l’intensa concentrazione nell’osservazione di un ambiente ordinario; famoso è il loro incontro alla Cornish School di Seattle nel 1938, nel quale per recarsi all’ora di pranzo ad un ristorante giapponese che non dista molto dalla scuola, i due passano diverse ore a soffermarsi a osservare la natura: alberi, foglie, insetti, nuvole, sono per Tobey elementi carichi di fascino e mai banali.
In questa occasione Cage si rende conto che per la prima volta qualcuno gli dà una vera lezione sul guardare senza pregiudizi, senza confronti, qui ed ora, in modo semplice ed essenziale. Questo orientamento alla purezza dello sguardo, diventa l’elemento fondamentale per il suo modo di pensare la musica, in cui anche i rumori e il silenzio non devono essere esclusi, senza porsi limiti, lasciando che l’arte e la vita confluiscano l’una nell’altra.

Campo selvatico, 1959
Campo selvatico, 1959 – Tempera su pannello, The Museum of Modern Art, New York, Collezione Sidney e Harriet Janis, 1967 – © 2017 Mark Tobey / Seattle Art Museum, Artists Rights Society (ARS), New York

Uscito da una mostra di Tobey alla Willard Gallery, dove sono esposti i suoi primi esempi di “scrittura bianca”, Cage racconta:  «All’angolo della Madison Avenue guardai la superficie del marciapiede e mi resi conto che quel che vedevo mi dava la stessa sensazione che avevo avuto guardando i dipinti di Tobey. Proprio la stessa, così come il piacere estetico che mi procurava era altrettanto alto». E descrive così un dipinto che acquista in quel periodo: «Era un dipinto che non raffigurava nulla, era per così dire completamente astratto. Non aveva riferimenti simbolici. Si trattava di una superficie che era stata completamente dipinta: ma non era stata dipinta in modo da suggerire quell’astrazione geometrica che allora m’interessava. Quello che abbiamo nel caso di Tobey, come in quello della superficie del marciapiede e come in gran parte dell’Espressionismo astratto, è proprio una superficie assolutamente priva di qualsiasi centro d’interesse. Possiamo guardare prima una parte e poi un’altra, e per quanto ci è possibile avere un’esperienza dell’insieme. Ma quest’insieme è tale che non sembra delimitato dalla cornice. Sembra che possa proseguire, espandendosi oltre la cornice. In altre parole, è come se non stessimo parlando di pittura, ma di musica, di un’opera che non ha inizio, né parti intermedie, né fine, ed è priva di punti focali».
Questo dipinto di Tobey è la scintilla che fa aprire gli occhi di Cage all’Espressionismo astratto, non nelle sue intenzioni, bensì nel suo modo di apparire, quella capacità immediata di modificare la visione del mondo, attraverso l’esperienza quotidiana del guardare.

Mondo bianco 1969
Mondo bianco, 1969 – Olio su tela Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington, DC, Donazione Joseph H. Hirshhorn, 1972, 72.294 – © 2017 Mark Tobey / Seattle Art Museum, Artists Rights Society (ARS), New York

Tobey e Cage acquisiscono la consapevolezza che proprio attraverso il vuoto e il silenzio, questi campi illimitati, i suoni e le immagini possono affiorare in modo naturale. Nella poetica di entrambi questo concetto di Nulla derivante dalla cultura orientale, è un elemento particolarmente presente grazie al percorso iniziatico che entrambi intraprendono nel corso della loro esistenza, un avvicinamento alla contemplazione della natura che ci circonda. In questo modo Cage e Tobey sono riusciti ad aprire le porte per una nuova esperienza dell’essere, una nuova esperienza del senso, un invito ad una nuova attenzione all’ascolto e allo sguardo.

Mondo, 1959
Mondo, 1959 – Tempera su cartone Collezione privata, New York © 2017 Mark Tobey / Seattle Art Museum, Artists Rights Society (ARS), New York

Dennis Ercole
© riproduzione riservata

_____________________

Dennis Ercole è autore della tesi dal titolo “Trame dell’Invisibile – Mark Tobey e John Cage, dialogo tra vuoto e silenzio” – Accademia di Belle Arti di Venezia – Corso di Nuove tecnologie dell’Arte, relatore Prof. Nicola Cisternino
     ***

Foto di copertina: Mark Tobey nel suo studio 1949 (part.), Courtesy Arthur Lyon Dahl. Photo by Larry Novak

© finnegans. Tutti i diritti riservati