RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Michael Caine e il Sessantotto: una lettura di classe, di Roberto Ellero

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Michael Caine e il Sessantotto: una lettura di classe
In “My Generation”, attualmente nelle sale, rivive la Swinging London. Un film da vedere
di Roberto Ellero

          A proposito di Sessantotto, di cui inevitabilmente molto si parlerà nel corso dell’anno (magari un po’ a vanvera, pro e contro, mentre arretrano gradualmente gli argini di difesa della democrazia e fingiamo di non accorgercene), merita qualche attenzione un piccolo film indipendente che ha fatto capolino in questi giorni nelle sale, dopo un passaggio fuori concorso all’ultima Mostra di Venezia: “My Generation”, voluto e prodotto da Michael Caine, diretto da David Batty, distribuito qui da noi da I Wonder Pictures.

           “Voluto e prodotto” è già molto ma non dice tutto: vale – sullo schermo – la presenza del grande attore inglese in veste di testimone e di partecipe narratore di una generazione in movimento che ha profondamente modificato, diciamo pure “rivoluzionato”, il modo di essere dei giovani e più in generale i costumi sociali su scala planetaria. Giovani protagonisti e non più subalterni. E Sessantotto, dunque, in senso ampio, data epitome, che compendia e simbolizza i fermenti e le novità di almeno un paio di decenni, ricomprendendovi il prima e il dopo, sia pure con tutte le varianti di ciascun paese e contesto. Nulla sarà più come prima, s’usa dire.

          Sir Michael Caine nasce più modestamente Maurice Joseph Micklewhite in un quartiere popolare di Londra nel 1933, madre domestica per le case e padre pescivendolo al mercato, un umile avvenire ai banchetti anche per il futuro baronetto se non fosse per quel nauseabondo odore di pesce che – parole sue – proprio non sopporta… Origini orgogliosamente proletarie, cockney sin dall’inconfondibile parlata, ma nessuna volontà al martirio (di classe) e dunque una giovinezza un po’ scapestrata prima di cominciare a calcare le scene e poi ad affacciarsi al cinema. Fisico e portamento austero, di poche parole e risoluto, capace di ruoli drammatici ma anche leggeri, vanta un volto severo, quando non sornione, facilmente riconducibile all’aplomb nazionale, ma per guadagnarsi al cinema i gradi di ufficiale deve attendere un regista americano (Cy Endfield, “Zulu”, 1964), restandogli impraticabile la promozione sociale agli occhi dell’establishment britannico. Ancora questioni di classe, in un paese fortemente classista e tradizionalista, dove ciascuno deve restare al suo posto, sebbene la scolarizzazione di massa sia già realtà alimentando le conseguenti aspettative di ascensione sociale.

The Beatles

          Ed è proprio questo il punto. Riandando a quegli anni, piuttosto che al fruttuoso prosieguo di carriera, Michael Caine (cognome d’arte mutuato dal titolo di un film in programmazione a Leicester, “The Mutiny of Caine”, (L’ammutinamento del Caine), 1954, del proscritto per fobie maccartiste Edward Dmytryk, con l’amatissimo Humphrey Bogart) rileva la preponderante origine working class di buona parte di coloro che saranno i protagonisti della swinging London nei diversi campi della nascente industria culturale: la musica naturalmente (e che musica: Beatles, Rolling Stones, Who, Donovan, Marianne Faithfull, e poi saranno i Led Zeppelin, David Bowie, Pink Floyd e tanti altri), ma anche la moda (Mary Quant con le sue minigonne, e Twiggy, sua ispirata interprete), la fotografia (uno per tutti: David Bailey), la pop art di David Hockney, le sfuriate del free cinema (proprio Caine nel ruolo del cinico Alfie nell’omonima pellicola di Lewis Gilbert del 1966).

Per la prima volta nella storia, i giovani della classe operaia lottavano per se stessi e dicevano; siamo qui, questa società è anche nostra e non vogliamo andarcene!

          Altro che figli di papà, per citare la vulgata destrorsa, magari abusando sino alla noia del Pasolini di Valle Giulia: l’ammutinato Caine rivendica la voglia di non stare al proprio posto di un’intera generazione. La sua e la nostra. A Londra come altrove, magari con tratti e caratteri differenti. E certamente la politica (le manifestazioni contro la guerra in Vietnam e contro il razzismo, documentate anche nel film), ma nell’accezione larga dell’insubordinazione al sistema e alle sue regole piuttosto che in quella ristretta dell’osservante militanza ideologica (che verrà dopo, quando e dove verrà). Riesumando la vecchia formula operaista, non erano forse i giovani operai immigrati, dequalificati, incolti, presi dalla campagne e dalle periferie, in una parola l’”operaio-massa”, alternativo alla cosiddetta “aristocrazia operaia” dei professionalizzati, a costituire il potenziale nuovo soggetto rivoluzionario di una classe davvero sovversiva, per prima cosa allergica al ruolo di mera “forza-lavoro”?

          La traccia è utile a capire le dimensioni di un fenomeno libertario mondiale e di massa che costituisce per l’appunto l’essenza e l’originalità di ciò che per brevità chiamiamo Sessantotto. Il suo non arrendersi alle contrapposizioni ideologiche tradizionali di capitalismo e comunismo, in fondo convergenti nel medesimo autoritarismo, per immaginare e dove possibile praticare nuove forme di soggettività: dalla famiglia alla scuola, dalla fabbrica alla società. E basti pensare al nascente femminismo o ai primi movimenti lgbt. Un movimento, infatti, visto con comprensibile paura e ribrezzo dalla varie componenti del potere, ma accolto con sospetto e diffidenza anche dagli oppositori tradizionali, ampiamente scavalcati a sinistra, come s’usava dire allora.     

          Michael Caine ricorda un solo spinello in vita sua e gli sono bastate le conseguenti quattro ore di risate inebetite per darci un taglio. Non così per molti altri della sua generazione, perdutisi nei fumi dei paradisi artificiali, anche se magari qualcuno, fattosi di tutto, è ancora capace di trascinare le platee cinquant’anni dopo. Comunque, fughe individuali in luogo del ritrovarsi collettivo. Altrove, da noi, tardivi propositi insurrezionali sfociano in sanguinose parodie del passato, mentre più in generale, e pressoché ovunque, la trasgressione finisce per farsi moda, neo conformismo, ampiamente assorbita e sfruttata da quello stesso sistema che, per interesse, diventa volentieri permissivo, abbandonando al loro destino bacchettoni e bigotti. Sino ai giorni nostri, con l’oziosa banalizzazione del concetto stesso di libertà, un valore in apparenza non più da rivendicare e conquistare.

          Preziosi materiali d’archivio, montaggio nello stile convulso di allora, una strepitosa colonna sonora: “My Generation” non manda deluso chi c’era e ha qualcosa da dire ai giovani d’oggi. Ribellarsi è sempre possibile, sognare in grande fa bene. Parola di un pescivendolo mancato che ce l’ha fatta, decisamente grato, senza orpelli e fanfare, a quella indimenticabile stagione.

Roberto Ellero
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ROBERTO ELLERO

Veneziano, Roberto Ellero è stato direttore del settore Cultura-Turismo del Comune di Venezia fino all’agosto del 2016. È stato direttore del periodico “Circuito Cinema”. Giornalista e critico cinematografico, collabora con quotidiani e riviste. Ha all’attivo numerose pubblicazioni, fra cui lavori monografici su André Delvaux, Sidney Lumet, Martin Ritt, e Simenon al cinema. In ambito storico, è autore del volume “Giuseppe Compagnoni e gli ultimi anni della Repubblica di Venezia”.

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