RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Pat Metheny: (Still) Life not more talking – Una Chitarra (non) per tutte le stagioni, di Antonio D’Este

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Lui è nato nel 1954 a Lee’s Summit, un paesino del Missouri, nel profondo Midwest (U.S.A.), da un venditore di autovetture (Dodge) e da una tranquilla casalinga.
Fin da ragazzo, come il fratello più anziano Mike, aveva mostrato una profonda inclinazione per la musica. Non ci volle molto perché imbracciasse la chitarra, incuriosito ed attratto dal jazz. Presto, dopo una iniziale attrazione per la tromba  (probabilmente mutuata dal fratello maggiore), dichiarò che “New York is now” di Ornette Coleman per lui era stato un punto di riferimento preciso. Con Jim Hall nel cuore come idolo di riferimento chitarristico, aveva frequentato giovanissimo la prestigiosa Berklee School of Music di Boston e in breve tempo ne divenne anche apprezzatissimo istruttore.
Si presentò quindi, preparato – e forte di un naturale talento – ai concerti del già celebre vibrafonista americano Gary Burton e ad un certo punto, sentendosi pronto, gli chiese di suonare con lui. Burton accettò ed il ragazzo iniziò la sua carriera. Il talento indubbiamente c’era.

Pat Metheny e Ornette Coleman

Nel 1976, Manfred Eicher, il patron della prestigiosa etichetta di Monaco di Baviera ECM, diede a Metheny e ai suoi 22 anni la sua prima vera occasione discografica realizzando con Jaco Pastorius e Bob Moses il suo primo lavoro “Bright Size Life” ed i risultati già lasciavano presagire che i contenuti futuri avrebbero reso fede al titolo del suo esordio.
L’incontro con Lyle Mays, discograficamente parlando, avvenne dopo il suo secondo lavoro “Watercolors”, e nel 1978, il suo nuovo quartetto – con Mark Egan e Dan Gottlieb – prese forma in un mirabile disco, quel terzo lavoro, “White Album” (o “ Group”) che disegnò i primi veri paradigmi del suo futuro scenario in maniera più netta e precisa.
La coniugazione con Lyle Mays, valente tastierista del Wisconsin, fu cruciale. La capacità ed il senso melodico e compositivo di Metheny trovarono in Mays un naturale terreno di completamento e sublimazione sia sotto il profilo armonico che melodico, nonché un felicissimo sodalizio artistico, anche sotto un profilo squisitamente tecnico.
Il duo, pur sostituendo più volte nell’arco di un ventennio la sezione ritmica in seno al gruppo, rimase inalterato e proficuo sia sotto il punto di vista della scrittura che della freschezza nell’esecuzione delle proposte (a questo proposito si faccia riferimento alla mirabile opera “As Falls Wichita so Falls Wichita Falls”, pubblicato da ECM nel 1980, sebbene i due siano gli unici autori/esecutori con il solo appoggio esterno di Nana Vasconcelos).

In piedi da sx: Armando Marçal, Steve Rodby, Pat Metheny, Lyle Mays, David Blamires
Seduti da sx: Mark Ledford, Paul Wertico

Il sodalizio con la ECM invece ebbe termine verso la metà degli anni ’80, quando Metheny firmò un contratto, durato circa 9 anni, con la nascente Geffen Records, etichetta americana che permetteva a lui ed al suo gruppo minori spostamenti in Europa per le sedute d’incisione ed una maggiore diffusione, su una più ampia scala, sia sotto il profilo distributivo che di quello commerciale.
Facendo brevemente un passo indietro e per dovere di cronaca, andrebbe poi citata anche una notevole release risalente al 1980 che lo vide protagonista, insieme a Jaco Pastorius, Lyle Mays, Don Alias e Michael Brecker, del doppio live “ Shadows and Light” di Joni Mitchell, che costituì per la cantautrice canadese un autentico punto di svolta per gli anni a venire.
Tornando all’ipotetico “secondo periodo” del chitarrista americano, il Gruppo di Metheny realizzò più di un buon lavoro, esordendo per la Geffen Records con un sentito omaggio a Ornette Coleman – peraltro titolare stesso – di quel “ Song X” che vide la luce nel 1985 ed esplorando gli spesso ostici territori del Free Jazz.
Nello stesso anno poi, Metheny firmava, insieme a Lyle Mays, la colonna sonora – non l’unica nella sua carriera – di un film di John Schlesinger (“The Falcon and The Snowman”/ “Il Gioco del Falco”) che verrà ricordata soprattutto per la memorabile partecipazione di David Bowie in un brano (“This is not America”). Questo gli darà ulteriore spinta, visibilità e successo internazionale.

La collaborazione con l’etichetta di David Geffen si concluse verso la metà degli anni ‘90 avendo generato diverse buone cose,  soprattutto “Still Life (Talking)” del 1987 e diffondendo non poco a livello mondiale il suo nome, le sue intenzioni e direzioni sonore. Metheny, effettivamente, era stato uno dei pochissimi musicisti Jazz a riuscire nell’intento di coniugare diversi elementi musicali in un flusso sempre stimolante e capace di attirare verso la sua musica frotte di giovani incuriositi dal particolarissimo mix di elementi presenti nelle sue partiture. Era davvero curioso, se non insolito, il veder riempire Teatri e Palasport di tutto il mondo al richiamo del suo nome, dato il genere e l’esuberanza con cui le direzioni venivano espresse e manifestate.
Dal 1997, con “Imaginary day”, Metheny inizia un nuovo percorso discografico con la Major Warner Bros. Diversi elementi di novità soniche contemporanee si affacciano nel suo suono. Già 5 anni prima, nel suo ambizioso secondo lavoro solista “Secret Story”, affioravano del resto elementi diversi (uso e metodi di utilizzazione dell’orchestra, poliritmia, uso dei sintetizzatori e delle voci) che ampliavano, arricchendolo, il suo già vasto spettro sonoro, rivolgendosi ad un pubblico se possibile ancora e sempre più ampio. Il risultato di “Imaginary Day”, per chi scrive, non è tuttavia dei più soddisfacenti. Il progetto appare vago, eccessivamente frammentario ed indeciso sulle direzioni da seguire. Nel frattempo i tours continuavano in tutto il mondo con crescente interesse ed apprezzamenti di sempre più larghe platee e critica.

Da sx: Gregoire Maret, Pat Metheny, Cuong Vu, Nando Lauria, Antonio Sanchez (nella foto non compaiono Steve Rodby e Lyle Mays, presenti invece nello show di Seul – Corea del Sud, 2005). La foto è tratta dal DVD e bluray di “The Way Up”, pubblicati nel 2007

Da allora seguirà un lungo intervallo di cinque anni in cui il chitarrista di Lee’s Summit darà vita ad una sequenza di progetti con formazioni via via cangianti ed in direzioni diverse, anche piuttosto interessanti in taluni casi. Il Gruppo vero e proprio riprenderà la strada degli studi di incisione solo altre due volte, nel 2002 e nel 2005.
Tra le diverse cose che Metheny realizza dopo va sicuramente apprezzato il progetto “Orchestrion” (2010), una sorta di esperimento, in parte riuscito, in cui grazie ad una serie di marchingegni elettromeccanici suonava contemporaneamente  (anche dal vivo ed in completa solitudine) una moltitudine di strumenti, con risultati curiosi ed interessanti.
Oggi, sicuramente la defezione di Lyle Mays (e che si sta protraendo già dall’indomani della pubblicazione di “The Way Up” del 2005) ha ridefinito la progettualità di Metheny. Il tastierista del Wisconsin, stanco dei lunghi anni trascorsi intensamente sui palchi del mondo, sembra essersi ritirato dall’attività, impedendo di fatto a Metheny la prosecuzione di un lungo rapporto proficuo, generoso e multiforme. E ciò ha costretto il chitarrista a cercare altre soluzioni. Non ultima quella dell’abbandono di certe strade rivolte alle contaminazioni tra i generi.
La cosa, per chi scrive, ha fatto emergere nel tempo come risultanza un impoverimento compositivo ed espressivo, accompagnati da una progressiva e costante perdita di smalto invero preoccupante. Laddove il suo suono risultava anni addietro fresco ed accattivante grazie all’incontro con le idee di Mays ed al costante arricchimento di nuovi linguaggi espressivi ed eventuali collaborazioni più o meno estemporanee, oggi si assiste ad una ripetizione, spesso sterile, di modelli e formule già ampiamente note e sperimentate.

Nell’ascoltatore attento e critico nasce il sospetto di una incapacità reale nel saper ancora scrutare l’orizzonte con idee chiare, fresche e convincenti; e che il progressivo successo, anche commerciale, abbia potuto condizionare pesantemente il coraggio di affrontare nuovi step. E che la scelta di nuovi collaboratori pur di valore (ma spesso sottoutilizzati a favore di una personalismo forse eccessivo), non aiuti certo a ridefinire o valorizzare la sua figura, creando in tal modo l’ulteriore sospetto che Metheny stia vivacchiando riproponendo schemi noti e moduli da cui lui stesso non riesce più a svincolarsi. Non è certo un mistero che gran parte del successo del chitarrista sia imputabile alla riuscita di una formula felice – quella del primo Group – che gli aveva avvicinato schiere di fan, molti anni prima.
L’immagine e la sostanza del Pat Metheny Group che in vent’anni sintetizzava una fusione di stili, generi e direzioni in modo mirabile rendendo il jazz più appetibile ad un pubblico spesso profano del genere, era (ed è) diventata, per la stragrande maggioranza dei suoi fan, un riferimento imprescindibile.

Il tentativo di riproporre ora quel repertorio ad un pubblico contemporaneo (come sta facendo attualmente negli ultimi tours 2016-2017) appare come scialbo, non convinto, senza guizzi, né freschezza. E credo non potrebbe essere altrimenti, se si considera la fondamentale mancanza a più livelli – temo soprattutto su quello principalmente compositivo – di Mays, una delle figure chiave di quel suono. Se si aggiunge poi qualche malanno fisico, e le recenti prese di posizione nell’impedire la diffusione online di materiale fotografico storico, documentazioni video senza autorizzazioni, testimonianze audio, anche nei canali di massa come Youtube, il tutto lascia riflettere con perplessità sul suo attuale, autentico State of the art. Ed indurre a pensare ad un prematuro spegnimento della stella Metheny.
È un peccato dover constatare come un uomo ed un chitarrista che per molti anni aveva lasciato un’ immagine di sé con ampie tracce e testimonianze di intelligenza, affabilità e profondità musicale, abbia lasciato il posto oggi ad una presenza appannata, stanca e sfuocata. E quel che è peggio, con molti punti interrogativi che lasciano parecchio perplessi sul possibile prosieguo.

Antonio D’Este
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